“Certo che indosso da più di un mese la divisa dei deportati nei lager nazisti. E intendo continuare a portarla per sempre, o almeno fino a quando non verrà revocato il Green pass”. È sua intenzione farlo anche quando va in Tribunale a Pordenone? “Nooo, in Tribunale no, anche perché i miei colleghi mi chiedono se sono già vestito da Carnevale”. Vitto Claut, referente del Codacons in Friuli Venezia Giulia, è convinto che le misure di prevenzione sul fronte della pandemia costituiscano un attacco alle libertà individuali. Indossare – improvvisamente – la divisa dei deportati non è una novità. Lo hanno già sperimentato in molti durante le manifestazioni dei No Vax, No Green pass o dei No Covid. Il fatto è che l’avvocato ha deciso di farlo anche nella vita quotidiana, con l’esclusione del palazzo di giustizia, per una forma di rispetto nei confronti dell’attività forense.
Claut era candidato sindaco alle elezioni comunali di ottobre, con “Coalizione Etica – Gilet Arancioni”. Ha raccolto appena l’1,52 per cento dei voti. È un personaggio sicuramente provocatorio, il primo italiano che ha sottoscritto un contratto per farsi ibernare dopo la morte. Sul tema del presunto liberticidio causato dal Green pass sostiene tesi non originali, ma con una variante di tipo storico, che riguarda proprio il trattamento subito dagli ebrei. Non le pare blasfemo utilizzare il simbolo di una tragedia come l’Olocausto? “No, anzi: io mi identifico con gli ebrei il cui dramma mi è ben presente, non fosse altro perché sono stato a visitare cinque diversi campi di sterminio, tra cui quello di Auschwitz. Ma io sono appassionato di storia…”. Più che al Nazismo, guarda al Fascismo. “Anche nel 1937 chi era ebreo o non aveva in tasca il tesserino del Partito Nazionale Fascista non poteva lavorare. Ho letto quello che dicevano e scrivevano i docenti universitari nei confronti dei loro colleghi (pochissimi, ndr) che rifiutavano di iscriversi al partito. Ecco, accade anche oggi…”. Ma all’origine c’era, allora, una discriminazione di razza, oggi si guarda alla tutela della salute come bene comune. “La situazione attuale è quasi come quella di allora, a me pare che si possano sovrapporre. Lo sa che a Pordenone su duemila tra medici e lavoratori sanitari ne sono stati sospesi 380 per mancanza di Green pass? Molti di loro stanno andando all’estero a lavorare e non torneranno più in Italia. Io ho presentato anche una denuncia penale”.
L’uscita per le strade di Pordenone dell’avvocato con il pigiamone a strisce e una stella gialla sul petto suscita reazioni contrastanti. “Durante le manifestazioni fanno segni di approvazione con il pollice…”. Ma in città? “Qualcuno abbassa il pollice, qualche altro mi dice ‘vergognati!’. Altri: ‘Non è possibile che vai in giro vestito così’”. L’avvocato difende il diritto al lavoro, ma non solo. “Difendo anche il diritto ad andare al ristorante. Una sera con tre amici, tutti sprovvisti di green pass, abbiamo dovuto consumare una pizza veloce all’aperto, con una temperatura di 4 gradi. Questa storia comincia a dividere le famiglie, le amicizie. Per strada ho incontrato un carissimo compagno d’infanzia che non vedevo da un po’. Mi sono avvicinato, ma lui è scappato: ‘Eh no, tu non hai il Green pass e mi attacchi la malattia’. A Roma ho dovuto andare su un treno regionale che ha fatto 45 fermate… Mi dica lei”. Non le è venuto in mente che basterebbe una semplice punturina?