Il premier Mario Draghi e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, hanno rotto un silenzio che durava da mesi sulla vicenda: il primo chiedendo verità al presidente della RdCongo, il secondo conferendo la Croce di “Cavaliere” dell’Ordine militare d’Italia al 13mo Reggimento Carabinieri “Friuli Venezia Giulia” per omaggiare la memoria di Vittorio Iacovacci. Ma le indagini rischiano di arenarsi a causa della scarsa collaborazione degli attori in gioco
Durante le commemorazioni del 4 novembre, il presidente Sergio Mattarella ha conferito la Croce di “Cavaliere” dell’Ordine militare d’Italia al 13mo Reggimento Carabinieri “Friuli Venezia Giulia” per omaggiare la memoria di Vittorio Iacovacci: “In Congo – si legge nella motivazione –, nel corso di un attacco armato, un carabiniere del Reggimento immolava la propria vita nello strenuo tentativo di proteggere l’ambasciatore italiano, anch’egli deceduto”. Il riconoscimento giunge a pochi giorni dall’intervento di Mario Draghi che, durante il G20, ha voluto chiedere conto a Félix Tshisekedi, presidente della Repubblica Democratica del Congo, dello stato delle indagini del carabiniere, di Luca Attanasio e del loro autista Mustapha Milambo.
Due uscite pubbliche che, dopo mesi di silenzio, fanno pensare a un rinnovato interesse per il caso. Dopo il clamore iniziale, infatti, non si erano più registrati interventi, prese di posizione, pressioni di sorta. E le indagini ad oggi languono, per l’inerzia e la scarsa collaborazione dei principali attori in gioco: l’inchiesta congolese è ferma, quella interna del Pam (il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite) è stata chiusa quasi subito. Solo i magistrati italiani, con enorme fatica, proseguono le indagini. Ma il loro lavoro è ostacolato da rinvii e scarso sostegno da parte delle autorità congolesi, che dovrebbero fornire appoggio e garanzie per una nuova missione dei Ros sul posto, e dall’ostruzionismo del Pam, i cui funzionari coinvolti non rispondono alle convocazioni, facendosi scudo dell’immunità diplomatica garantita al personale Onu. Una situazione che rende più difficile per il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, a cui è affidato il fascicolo, stabilire anche di chi fosse la responsabilità della sicurezza per quella trasferta, se dello stesso Attanasio o della Farnesina, come già scritto dal Fatto Quotidiano.
L’organizzazione del viaggio
Lungi dall’essere chiarita, la vicenda presenta tanti punti oscuri, a partire già dalla ricostruzione dei fatti, tutt’altro che definita. Proviamo a ripercorrerli: Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci, la mattina del 22 febbraio, partono da Goma, capoluogo del Nord Kivu, per raggiungere la cittadina di Rutshuru, per visitare un programma del Pam. Viaggiano in un convoglio di due vetture, con il vicedirettore del Pam in RdCongo, Rocco Leone, e altri tre, tutto personale congolese dell’Agenzia. E già sulla disposizione delle due auto non c’è chiarezza, perché nelle prime ricostruzioni si affermava che quella dell’ambasciatore viaggiasse davanti, mentre ciò non è corretto, come dimostrano anche i video amatoriali ripresi dai passanti subito dopo l’assalto.
La ricostruzione dell’agguato
L’agguato, dunque: dopo circa 15 minuti di viaggio, nei pressi del villaggio di Kibumba, nella località nota come 3 antennes (dove sorgono tre piloni dell’alta tensione), le due auto sono state fermate da un ostacolo sulla strada. Dal bordo della carreggiata (dove c’è erba alta, ma non foresta) sono sbucati gli assalitori, pare sei o sette, vestiti con divise e armati di kalashnikov, che hanno immediatamente freddato l’autista Mustapha Milambo Baguma e portato via i due italiani. Di sicuro, hanno prelevato Attanasio e Iacovacci, mentre sulla sorte toccata a Leone ci sono versioni diverse: sarebbe rimasto indietro, fingendo di zoppicare e riuscendo a fuggire, o si sarebbe nascosto fra le case vicine. Quale sia il racconto corretto non si sa, perché gli inquirenti non hanno mai potuto interrogarlo. “Immunità diplomatica”.
Il movente
E ancora: le prime notizie parlavano di tentato sequestro, rapiti portati in foresta, intervento dei rangers del vicino parco dei Virunga e fatalmente Attanasio e Iacovacci feriti gravemente. A parte la singolarità del ferimento a morte degli unici due europei presenti, che avrebbero piuttosto dovuto essere fonte di guadagno, stupisce che tutti gli altri coinvolti siano usciti illesi dal presunto scontro a fuoco. Solo un dipendente congolese del Pam ha riportato una leggera ferita a un dito. In uno dei video amatoriali si sente inoltre una voce che grida: “Eccoli! Si tolgono le divise e mettono quelle dei poliziotti”. Una frase sibillina, che si presta a diverse interpretazioni: non è difficile procurarsi divise, nella zona, ma nemmeno pagare qualche elemento corruttibile delle forze armate per ottenere un “lavoro extra”, come testimoniano da anni i rapporti di diverse associazioni e delle stesse Nazioni Unite.
L’allerta sicurezza sconosciuta a Kinshasa
Come ilfattoquotidiano.it aveva rivelato a suo tempo, un altro elemento stonato è il fatto che la sera prima fosse stata proclamata un’allerta sul territorio, di cui nella capitale non sapevano nulla, che aveva richiamato verso Goma le truppe di stanza nei dintorni, compresa la piccola postazione delle Fardc (l’esercito regolare) di stanza proprio a 3 antennes. Allerta tolta il giorno dopo l’uccisione dei nostri connazionali. E questi sono solo i più evidenti elementi dissonanti rispetto alla vulgata del rapimento finito male. I riflettori sono da subito stati puntati sulla mancata scorta e l’organizzazione del viaggio, la strada definita pericolosa o sicura, con vari rimpalli di responsabilità fra governo centrale, governatore provinciale, Monusco (la missione dei Caschi Blu in Congo) e Pam. Quel che è certo è che una settimana prima, su quella stessa strada, era transitato un diplomatico belga, con colleghi estoni, irlandesi e norvegesi, scortati – loro sì – da un folto contingente armato, come si legge nel libro L’omicidio Attanasio di Matteo Giusti. Su questi aspetti si starebbero concentrando le indagini dei Pm italiani.
Il tragitto scelto
Ma altre incongruenze sono presenti un po’ in tutto il viaggio, iniziato dalla capitale Kinshasa il venerdì 19 con un volo Onu: l’intero spostamento era stato organizzato infatti dal Pam, cui spettava l’organizzazione e anche la sicurezza dell’intera trasferta. Da Goma, l’ambasciatore si è recato a Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, via terra, costeggiando il lago Kivu: un percorso lungo e non battuto, che non usa nessuno. Tutti, anche le persone comuni, si recano da Goma a Bukavu via lago, con battelli più o meno veloci. Ufficialmente, la motivazione di questa strana scelta era la visita a un altro progetto del Pam a Bobandana o a Minova, a seconda delle fonti: due villaggi molto vicini fra loro, ma anche non lontani da Goma e raggiungibili via lago. Perché dunque impiegare un’intera giornata di viaggio su una strada non praticata e non particolarmente sicura, invece di raggiungere Bukavu via lago, come fanno tutti e come loro stessi hanno poi fatto al ritorno?
Domande a cui dovrebbe rispondere il personale del Pam che ha organizzato il viaggio. E che, essendo protetti da immunità diplomatica, non hanno potuto ancora essere interrogati dai magistrati italiani. Solo un funzionario congolese è venuto a Roma, scortato da due avvocati, per essere interrogato lo scorso giugno, e da allora è ufficialmente indagato per omesse cautele. Nessun altro indagato, finora, per il secondo filone d’indagine, in cui si ipotizza il reato di tentativo di sequestro di persona con finalità di terrorismo.