Il comitato Saraceno, nella relazione per il governo, spiega che per rimediare alla penalizzazione dei residenti al Nord conviene consentire agli enti locali di integrare il sussidio con altre erogazioni. Prevedere criteri di accesso differenti rischierebbe di creare nuove disparità invece che livellare quelle esistenti. E il fatto che al Sud i beneficiari siano sovra-rappresentati non dipende da "eccessiva generosità" o "maggior lassismo", ma da "scarsità di risorse economiche (mercato del lavoro) e di capitale umano e sociale"
E’ stato uno dei punti deboli del reddito di cittadinanza più chiaramente messi a nudo dalla pandemia. Si parla della penalizzazione dei residenti nel Nord Italia, l’area che ha registrato la maggiore esplosione della povertà assoluta ma dove i beneficiari del sussidio, stando agli ultimi dati Inps, sono poco meno di 580mila contro gli 1,9 milioni che vivono nel Mezzogiorno. Nella relazione appena presentata al governo, però, il comitato di esperti presieduto da Chiara Saraceno non fa alcuna proposta ad hoc per risolvere il problema. Perché, spiega, occorre tener conto del fatto che il Mezzogiorno sconta una carenza di servizi pubblici che “fa una grande differenza per la qualità della vita e per lo stesso costo di soddisfacimento dei bisogni”. Non solo: un intervento su questo fronte rischierebbe di creare nuove disparità invece che livellare quelle esistenti. Meglio allora, per ovviare alla differenze nel costo della vita, fare altre modifiche per consentire agli enti locali – più “vicini” ai bisogni dei beneficiari – di integrare il reddito con altre erogazioni.
I dati Istat sulla povertà assoluta aggiornati a marzo mostrano che nell’anno del Covid i “nuovi poveri” sono stati circa un milione, di cui però 720mila al Nord e 185mila al Sud. Al contrario, i percettori del reddito sono rimasti concentrati nel Mezzogiorno, dove tra gennaio e settembre 2021 ben 1,01 milioni di nuclei (in cui vivono 2,4 milioni di persone) hanno ricevuto almeno una mensilità di sussidio, a fronte dei 401mila nuclei (per 808mila persone) nel Nord. Nessuno scandalo: semplicemente l’istituto di statistica classifica le persone come indigenti in base ai consumi e adotta linee di povertà differenziate sia su base territoriale sia per ampiezza del Comune, mentre i beneficiari del reddito vengono selezionati in base al reddito e alla ricchezza e senza nessun tipo di differenziazione territoriale delle soglie.
L’ipotesi differenziare la soglia di accesso, innalzando quella per chi risiede nelle regioni settentrionali, però, secondo gli esperti “presta il fianco a molte obiezioni”. Perché le differenze nel costo della vita “non riguardano solo le grandi ripartizioni territoriali, ma anche le città grandi rispetto a quelle piccole, le zone urbane rispetto a quelle rurali e così via”. Basti dire che l’Inps, a fronte di 39 tipologie famigliari individuate in base a età e numerosità dei componenti, “considera ben 9 diverse soglie di povertà assoluta”. Di conseguenza, adottare due diversi limiti per Nord e Sud non farebbe che creare nuove disuguaglianze. Non solo: “Non si può ignorare”, aggiunge il comitato, “la diversa disponibilità di beni pubblici nelle varie aree del Paese (servizi per l’infanzia, tempo pieno scolastico, servizi sanitari, trasporti, ecc.), non presa in considerazione nelle stime dell’Istat, ma che pure fa una grande differenza per la qualità della vita e per lo stesso costo di soddisfacimento dei bisogni, a parità di reddito. Queste differenze sono per certi versi speculari a quelle del costo della vita”. In altri termini, le aree con il costo della vita più basso hanno spesso anche una dotazione di servizi pubblici inferiore a quella nelle aree dove la spesa e gli affitti sono più cari. O devono sostenere costi aggiuntivi per goderne.
Soglie diverse su base territoriale sono sconsigliabili anche perché, in base all’ultimo rapporto annuale Inps, “per quanto rilevante sia il divario Nord-Sud nell’incidenza comunale dei beneficiari (6% al Sud; 2% al Nord), quasi la metà del gap può essere spiegato dall’insistenza, più o meno marcata, degli indicatori di povertà e da un mercato del lavoro caratterizzato da alta disoccupazione e bassa istruzione“. Tradotto: la “sovra-rappresentazione” dei beneficiari nel Mezzogiorno “non è dovuta ad una eccessiva generosità della soglia nei loro confronti o ad un maggior lassismo dei controlli, bensì ad una maggiore concentrazione nel Mezzogiorno di contesti locali caratterizzati da scarsità di risorse economiche (mercato del lavoro) e di capitale umano e sociale”. Infine, occorre anche tener presente che “una parte della sottorappresentazione dei poveri tra i beneficiari del RdC nelle regioni settentrionali è sicuramente dovuta alla soglia molto alta di anni residenza che esclude gran parte degli stranieri, numericamente più numerosi in queste regioni”.
Tutte considerazioni che fanno propendere il comitato per una soluzione diversa rispetto a ipotetiche “gabbie salariali” da applicare al reddito. La loro proposta, per ovviare alle differenze nel costo della vita “in modo il più possibile vicino al contesto preciso e non in modo generico”, è quella di considerare il reddito come un sostegno-base che Regioni e Comuni potranno poi integrare. Cosa che richiede una modifica della norma che attualmente considera ogni erogazione monetaria locale come parte del reddito da prendere in considerazione ai fini dell’accesso al sussidio e al suo importo: un corto circuito che penalizza inutilmente chi già riceve un aiuto e impedisce di risolvere il nodo delle differenze territoriali.