A nove anni Simona Cavallari era già sul set: primo impegno, un film tv di Giacomo Battiato. Bambina prodigio, si sarebbe detto in epoca pre talent. Tre anni dopo arrivò il suo primo ruolo da protagonista, al cinema, con Pizza Connection. Da quel momento in poi non si è più fermata, tranne quando lei stessa ha deciso di farlo. “Li considero i miei momenti per prendere ossigeno. Staccare da tutto, ma senza recidere il doppio nodo che mi lega al mio lavoro”, racconta a FqMagazine alla vigilia del suo ritorno in tv dopo qualche anno di assenza. Con Giuseppe Zeno è infatti la protagonista di Storia di una famiglia perbene, la nuova serie di Canale 5 (la seconda puntata va in onda mercoledì 10 novembre), tratta dall’omonomo libro di Rosa Ventrella e incentrata sull’amicizia che cresce fino a diventare un amore contrastato dalle faide tra due famiglie.
Lei interpreta Teresa, una madre amorevole e remissiva, che diventa una leonessa per difendere il futuro della figlia Maria ma è comunque sottomessa a un marito violento.
Teresa è una donna degli anni ’80, succube e devota al marito. Incassa tutto, si fa dominare e per raggiungere il suo obiettivo non le resta che lavorare sottotraccia. Confesso di aver fatto fatica ad amare questo ruolo perché tocca delle corde complicate.
Cosa l’ha “disturbata”?
Il fatto che racconti certe dinamiche familiari malate che ho letto sui giorni e che, soprattutto, ho visto da vicino con persone che conosco. Avendo tre figli maschi, è un tema che sento molto: educarli alla gentilezza e ai rapporti sani con le donne è fondamentale.
Ne parlate in famiglia?
Ne parliamo e credo che l’esempio migliore sia ciò che si respira in famiglia. Cerco di instillare gentilezza e quando hanno delle relazioni, ricordo loro di prendersi cura delle ragazze e di non instaurare rapporti tossici.
Teresa riesce a riprendere in mano la sua vita o sarà per sempre schiacciata dal marito?
Riesce a ribellarsi e c’è una scena catartica in cui lancia sedie e si sfoga di tutte le frustrazioni. Tanto che il marito poi si addolcisce e le permette persino di truccarsi. Cosa impensabile fino a poco prima.
Cosa l’ha colpita di questo ruolo in Storia di una famiglia perbene?
Mi interessava raccontare come una donna riesca a tirare fuori il meglio di sé pur di proteggere i suoi figli e soprattutto riprendere in mano la propria vita. La storia d’amore tra i due ragazzini protagonisti è intensa, mi ha appassionato molto.
La serie è ambientata a Bari: è stato complicato imparare l’accento pugliese?
Una coach ci ha molto aiutato, anche a distanza visto che la preparazione è avvenuta in pieno lockdown. La cosa più complicata sono le vocali al contrario. Poi sono entrata così tanto nella parte che mi sono portata dietro il classico “meh” pugliese anche dopo la fine delle riprese.
Con Giuseppe Zeno è scattato il feeling professionale?
Sì, anche se cercò di sotterrarmi viva in una scena di Squadra antimafia (dice ridendo). Con lui ho lavorato bene anche ne Le mani dentro la città.
A proposito di Squadra antimafia: il ruolo della vicequestore Claudia Mares le è restato appiccicato addosso. Le pesa?
No, affatto. Un attore è fortunato quando può interpretare un ruolo così intenso che colpisce e resta nell’immaginario collettivo. Sa che ancora oggi diverse ragazze mi scrivono per dirmi che hanno scelto di intraprendere la carriera in Polizia dopo essere rimaste colpite dalla Mares? In qualche modo ha ispirato. E poi ogni tanto mi capitano delle situazioni assurde.
Tipo?
Qualche settimana fa entro in un tabaccaio, un signore si gira e mi dice: “Sa, io e lei siamo colleghi”. “Ah, fa l’attore”, gli ho risposto. “No, sono un poliziotto”.
Lei ha iniziato a lavorare giovanissima: a nove anni era già sul set. Cosa significa essere una “bambina prodigio”?
Nel mio caso è significato lavorare senza sosta fino ai 22/23 anni, perdendo la leggerezza dell’adolescenza, perché per me il lavoro era impegno e dovere. Poi è significato esporsi al giudizio degli altri e affrontare i provini come un’adulta: gestire il rifiuto a quell’età non è semplice.
Chi l’ha protetta?
La mia famiglia. Anche se non essendo del settore, i miei genitori si sono affidati a persone che inevitabilmente hanno fatto andare la mia carriera in una direzione invece che in un’altra. Magari hanno rifiutato per me proposte cinematografiche che avrebbero cambiato la mia vita, chissà.
Ha mai subito approcci indesiderati?
No, nessun abuso e nessun approccio di troppo. Sono stata molto protetta e l’educazione che mi è stata imposta ha creato una sorta di scudo: mi hanno insegnato molto, anche a stare sempre con i piedi per terra anche quando il successo ti destabilizza.
A chi deve dire grazie?
Alla cugina di mia madre, che intuì in me un potenziale: lei faceva la baby sitter del figlio di un regista, io giocavo con questo bambino e un giorno feci un provino. Senza quell’incontro chissà dove sarei. E poi a me stessa: non mi sono mai arresa, mi sono sempre impegnata, ho studiato e continuo a farlo e come un’equilibrista ho cresciuto tre figli.
C’è un limite che si riconosce?
Avrei potuto essere più determinata e lucida in certe scelte. Alcune le ho fatte con troppa leggerezza.
C’è un no di cui si pente?
A 18 anni ero molto amica di una ragazza che lavorava all’Actor Studio e riuscii ad entrare come uditore. “Ora fa un’audizione per diventare corsista”, mi disse lei. La feci e mi presero a New York. Ma all’epoca ero molto innamorata di un ragazzo e quando arrivò la lettera di ammissione, decisi di restare a Roma.
C’è un sì di cui si pente?
Diversi, ma non glie li dico. Mi pento però di non aver fatto Mutande pazze di Roberto D’Agostino. La mia agente dell’epoca mi bloccò.
Storia di una famiglia per bene segna il suo ritorno in tv dopo qualche anno di assenza: è rischioso il pit-stop nel suo mestiere?
Sì, ma non è la prima volta che decido di fermarmi per qualche periodo. L’ho fatto quando i miei figli erano piccoli e anche quando sono diventati adolescenti, perché pensavo fosse giusto seguirli con più impegno. Fermarmi è come prendere una boccata d’ossigeno. Io poi ho sempre coltivato il legame con il mio lavoro anche quando ero ferma, studiando e allenandomi. Un’artista non può recidere mai quel legame, perché se manca il nutrimento la passione svanisce.
Che mamma è per i suoi figli?
Li ho viziati, sono stata e sono una compagna di giochi, vivo il maniera intensa il legame con loro. Anche fisicamente. Ma sono per la libertà: li lascio fare e sbagliare. Ora ad esempio Pablo, il mio primogenito, vuole iniziare un lungo viaggio a piedi: questa cosa mi spaventa ma è libero di fare ciò che vuole.
Seguiranno le sue orme artistiche?
Santiago immagino seguirà quelle paterne: scrive da quando è piccolo e dunque il confronto lo avrà col padre. Pablo ha assaporato la fatica del set ma non credo gli interessi molto: è vegano, non ha i social, è stato un anno in Australia durante la pandemia. Levon invece ha una passione immensa per gli animali che coltiverà ancora, chissà.
E lei invece che passione coltiva?
Quella per il teatro. Sembra che se non fai tv non lavori, invece c’è altro oltre alla televisione. Di recente ho fatto un bellissimo spettacolo con Ettore Bassi, Mi amavi ancora. Qualche sera fa, a Ferrara, una ragazza è venuta dalla Sicilia per vederci: è una soddisfazione immensa l’affetto del pubblico.
C’è uno sfizio teatrale che vorrebbe togliersi?
Un monologo classico, magari Medea. Ci sto pensando da tempo e magari arriverà presto l’occasione.
In tv invece è legata a filo doppio a Mediaset. Proposte dalla Rai?
No, non mi chiamano da tempo. L’ultima cosa che ho fatto è stato un episodio di Don Matteo ed è stato emozionante conoscere Terence Hill perché era il mio mito da piccola. È un uomo molto dolce e condividiamo l’amore per la natura. Lui fa l’olio e il vino ed è un progetto che coltivo anch’io: un giorno vorrei andare a vivere in campagna.
Intanto però sta per tornare sul set: è tra i protagonisti di Viola come il mare, per Canale 5, con Can Yaman e Francesca Chillemi. L’ha già conosciuto l’attore turco?
Sì, abbiamo fatto una prova copione. Mi ha colpito il suo italiano perfetto, perché non sbaglia un congiuntivo, e poi mi è sembrato una persona molto profonda. So che sotto l’albergo, a Palermo, stazionano 300 persone al giorno. Intanto su Instagram è successo un casino.
Dica.
Quando mi hanno chiamato per questa serie ero contenta perché è una commedia leggera e perché mi piace molto il regista Francesco Vicario. Ma non sapevo che Can fosse il protagonista: alla prova costume ho messo qualche storia su Instagram ed è successo un delirio, mi hanno scritto e repostato centinaia di persone. Mai successo prima. Alle sue fan dico ironicamente di calmarsi: ho una sola scena con lui.
Il ruolo dei suoi sogni?
Un musical a teatro: amo cantare ed è un genere che mi fa impazzire. Una volta l’anno vado a Londra e me li vedo tutti. Oppure una bella commedia all’italiana, come si facevano una volta, nella quale misurarmi con un ruolo totalmente inedito per me.
C’è qualcosa che il pubblico non sa di lei?
Tantissime cose. Ad esempio, do l’idea di una persona molto calma, invece sono una sempre in movimento, carica di energia tanto che a volte fatico a gestirla. E poi amo fare, costruire, inventarmi cose per la casa, realizzare di tutto, dai lampadari agli appendiabiti.
La discrezione l’ha più protetta o penalizzata?
Forse penalizzata, perché il talento da solo non basta e serve una spinta in più che la discrezione non ti dà. Non amo il gossip e la mondanità, passo molto tempo da sola e anche se mi piace stare in mezzo alla gente, ogni tanto ho bisogno di staccare da tutto per ricaricarmi. E poi non ho quella voglia di arrivare a tutti i costi che qualche volta ho invidiato ad alcuni colleghi: sono fatta così, agli obiettivi ci arrivo ma con i miei tempi.