Il Consiglio di Stato ha interrotto i festeggiamenti dei concessionari balneari, che dalla settimana scorsa esultavano per la decisione del governo Draghi di lasciar fuori dal ddl Concorrenza il tema della messa a gara delle spiagge. Martedì è arrivata la sentenza che fissa al 31 dicembre 2023 il termine ultimo di durata dei rinnovi, che con la legge di Bilancio per il 2019 erano stati invece prorogati fino al 2033 in (ennesima) violazione della direttiva Bolkestein. Ora l’esecutivo, già richiamato all’ordine da Bruxelles, dovrà intervenire. E, puntualmente, le associazioni di categoria che rappresentano i gestori degli stabilimenti evocano le spettro di migliaia di posti lavoro persi. Mentre il leader della Lega Matteo Salvini rincara la dose sostenendo che “i burocrati di Bruxelles e i loro complici” – i giudici amministrativi – devono “rassegnarsi” e aggiungendo, al solito, che “la spiagge italiane non sono in svendita“. Non concorda, ovviamente, il sindaco di Lecce Carlo Salvemini, che già nel 2020 si era rifiutato di applicare l’estensione al 2033 proponendo, appunto, solo una “proroga tecnica” di tre anni. Promossa ora dal Consiglio di Stato. Soddisfatto anche Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente: “In Italia c’è poca trasparenza sulle concessioni, che crescono di anno e in anno, e poi c’è la questione dei canoni irrisori. Ora l’auspicio è che con questa sentenza le cose nel comparto balneare possano cambiare e migliorare accelerando nella direzione della qualità e sostenibilità, replicando anche le esperienze green messe in campo già da alcuni lidi”.
“È una sentenza di portata storica“, commenta Salvemini, “che rende giustizia non tanto alla nostra piccola amministrazione che in questi anni, tra molte ostilità, si è fatta carico di proporre soluzioni e possibili vie d’uscita su un tema di così enorme portata, ma a tutti i cittadini italiani, che sono i legittimi proprietari delle spiagge“. Per le quali oggi i concessionari pagano, nella stragrande maggioranza dei casi, canoni irrisori, sotto i 2.500 euro all’anno. “Tutti, vecchi concessionari, giovani outsider, imprese, associazioni, devono avere il diritto di poter concorrere in maniera trasparente per la gestione e la valorizzazione di questo patrimonio. Le spiagge sono beni comuni, da amministrare nell’interesse dei cittadini, tutti”. I giudici amministrativi, riuniti in sessione plenaria, hanno infatti stabilito che dal 2024 non ci sarà alcuna possibilità di ulteriore prolungamento dell’attuale regime, con la conseguenza che il settore sarà sottoposto alle regole della concorrenza vigenti nel resto dell’Europa. Un termine perentorio stabilito fissato proprio per arginare il continuo slittamento del recepimento della direttiva Bolkestein che dal 2006 prevede di mettere a gara la gestione delle spiagge.
Sul fronte opposto Antonio Capacchione, presidente del Sindacato Italiano Balneari aderente a Fipe/Confcommercio, che si riserva di “leggere con la dovuta attenzione le motivazioni della sentenza” ma già la definisce “sconcertante prima ancora che sconvolgente perché si discosta da consolidati orientamenti giurisprudenziali, anche costituzionali, a tutela della proprietà aziendale, del lavoro e della certezza del diritto”. L’associazione balneari si riserva di decidere “le iniziative da intraprendere per la tutela di decine di migliaia di famiglie di onesti lavoratori gettate nell’angoscia più totale per la prospettiva di perdere il lavoro e i loro beni”. Lamentazioni analoghe arrivano da Maurizio Rustignoli, presidente delle imprese balneari di Fiba Confesercenti, che evoca “un terremoto che ha gettato nell’incertezza più profonda 30mila imprese, per lo più familiari”, da Confesercenti Toscana Nord – secondo il presidente versiliese Francesco Giannerini “la sentenza ha gettato nella disperazione migliaia di famiglie che adesso vedono a rischio anni di duro lavoro e soprattutto di investimenti” – e il presidente dei balneari di Lido di Camaiore (in Versilia) Marco Daddio, che parla di “colpo da accanimento su un settore che dà lavoro a migliaia di famiglie, lavoratori del territorio, e non a multinazionali di dubbia provenienza”.
Sulla stessa linea il Carroccio con Salvini e il sottosegretario alle Politiche agricole alimentari e forestali Gian Marco Centinaio, secondo cui “siamo davanti a una sentenza che rischia di annientare un sistema italiano fatto di pmi, spesso a conduzione familiare, a tutto vantaggio di grandi imprese” ed “è difficile ipotizzare quali saranno i criteri che saranno seguiti nel 2023, visto che si tratta di un settore con oltre 60 anni di storia e non si potrà certo far finta che il mercato precedente non sia mai esistito. Criteri che senza una mappatura del mercato sono impossibili da determinare”. Il Partito Democratico con Dario Stefano si schiera invece a favore della messa a gara: “Basta ritardi e basta inutili rinunciatarismi a dare una risposta normativa adeguata, sfruttando il più che generoso lasso di tempo che il consiglio di stato ha concesso, fino al 2023”. Anche se “questa parte delle pronunce è la meno convincente perché si crea un periodo di franchigia del tutto creativo, forse giustificabile solo come ammortizzatore“. Per Giulia Lupo, senatrice M5S, “ora il Parlamento ha la grande occasione di riordinare il settore inserendo anche meccanismi per non penalizzare gli operatori, come ad esempio prevedendo criteri premiali nei bandi per gli operatori in regola con i pagamenti dei dipendenti e che realizzano o hanno realizzato investimenti”.