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Bosnia, la “piccola Jugoslavia” dove torna la paura della guerra. L’Onu teme la nascita di un esercito separatista serbo, ma anche i croati puntano alla spartizione

Mentre la popolazione di etnia serba cerca di smantellare gli accordi di pace di Dayton come ritorsione contro la risoluzione che vieta la negazione del genocidio di Srebrenica, anche i leader croati, appoggiati da Zagabria, mirano a ritagliare una propria autonomia interna. Tutti ostacoli alla necessaria riforma della legge elettorale. "Il problema è che in questo Paese il nazionalismo, l’odio, la preparazione al conflitto rientrano in un progetto politico portato avanti dai leader di tutte e tre le parti", dice a Ilfattoquotidiano.it l'intellettuale Zlatko Dizdarević

Oltre le pareti vetrate della grande sala stampa del Parlamento bosniaco, il rappresentante speciale degli Stati Uniti per i Balcani occidentali, Gabriel Escobar, lunedì mattina ha rassicurato tutti. “La Bosnia-Erzegovina resterà un Paese sovrano e indipendente”, ha detto il diplomatico di fronte a decine di giornalisti impegnati a prendere appunti sulle sorti del loro stesso Paese. Le sue dichiarazioni sul fatto che “una guerra non ci sarà” sarebbero state scontate fino a qualche mese fa. Ma hanno smesso di esserlo negli ultimi giorni, ossia da quando il membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik, ha arricchito la sua retorica secessionista di progetti concreti per realizzare istituzioni indipendenti in ambito militare, giuridico e fiscale.

Settimana scorsa era diventato un caso internazionale il rapporto in cui l’Alto rappresentante Onu per il Paese, Christian Schmidt, sottolineava che se i separatisti serbi, storici alleati dei russi, arriveranno alla creazione di un proprio esercito sarà “molto realistica” la prospettiva di un ritorno al conflitto. Come rappresaglia, la Russia aveva minacciato di porre il veto all’estensione della missione militare Eufor Althea in Bosnia-Erzegovina (il dispiegamento di forze internazionali che dal 2004 hanno il compito di mantenere la pace nel Paese), se nel testo da adottare non fossero stati tolti tutti i riferimenti al report di Schmidt. Alla fine, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità il prosieguo della missione, ma alle condizioni imposte dai russi, che sono così riusciti a minare l’autorità dell’Alto rappresentante. E a dare implicitamente credito alla politica separatista del leader del partito nazionalista Snsd Dodik, che ha emanato dallo scorso luglio centinaia di proposte per smantellare pezzo dopo pezzo i propositi unitari degli accordi di Dayton, i trattati di pace siglati nel 1995 e sulla cui fragile e anacronistica architettura si basa la stabilità della Bosnia-Erzegovina.

Anche se le crepe più profonde sembrano avere epicentro in Republika Srpska (entità a maggioranza serba che compone il Paese insieme alla federazione croato-musulmana), tutte le parti in causa hanno le proprie responsabilità. “La Bosnia Erzegovina intesa come Stato sovrano non raggiungerà mai la normalità se non verrà messa fine a questa crisi – racconta a Ilfattoquotidiano.it Zlatko Dizdarević, giornalista e intellettuale bosniaco di fama internazionale – Il problema è che in questo Paese il nazionalismo, l’odio, la preparazione al conflitto rientrano in un progetto politico portato avanti dai leader di tutte e tre le parti. Le ambizioni e le idee di questi politici sono diverse, ma l’obiettivo finale è lo stesso”.

Mentre i proclami guerrafondai di Dodik guadagnano le prime pagine dei giornali dell’area, c’è un altro tema su cui si gioca il destino della Bosnia-Erzegovina e che viene spesso lasciato in secondo piano: la riforma della legge elettorale chiesta dal leader del partito conservatore croato Hdz, Dragan Čović, che vuole che soltanto i croati possano votare per il membro croato della presidenza bosniaca. Ciò è contrario a quanto previsto dagli accordi redatti ai tempi di Dayton, secondo cui sia croati che bosniaci sono chiamati a esprimersi per eleggere i candidati all’interno della Federazione. Il progetto di Čović, che darebbe implicitamente il via libera alla formazione di una terza entità croata nel Paese, è appoggiato non soltanto dalla Croazia, ma anche dalla Republika Srpska di Dodik, che ha fatto della spartizione il cuore del suo programma politico.

Benché in tutt’altra direzione, una modifica della legge elettorale è necessaria per adeguarsi alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha stabilito come tutti i cittadini, non solo i membri dei tre popoli costitutivi (serbi, croati e bosniaci), dovrebbero essere eleggibili per la presidenza. Attualmente, però, tutti coloro che si definisco “altro” rispetto ai tre gruppi etnici non possono partecipare alle elezioni.

Molte persone reagiscono con timore e incredulità al riproporsi di quelle dinamiche di rivendicazioni etniche che rendono la Bosnia-Erzegovina molto simile a una piccola Jugoslavia sulla via della dissoluzione. E come guidati da una sinistra volontà di non lasciarsi più cogliere di sorpresa, alcuni cittadini hanno recentemente manifestato davanti all’ambasciata americana di Sarajevo per chiedere “aiuto al presidente Biden per proteggere la sovranità e l’integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina che è sotto aperto attacco istituzionale”.

Secondo Dizdarević, tuttavia, “agli americani non importa nulla di Dodik, per loro la Bosnia-Erzegovina non è più così importante come la gente qui spera. Gli Stati Uniti non sono pronti a iniziare una fase di destabilizzazione nei Balcani, sono concentrati su altri fronti più importanti. Quando il Rappresentante speciale degli Stati Uniti nei Balcani occidentali, Matthew Palmer, è venuto qui a Sarajevo è stato chiaro. Ha fatto capire che gli americani possono offrire una serie di proposte per sbloccare lo stallo politico. Ma non metteranno in atto azioni concrete o decisive per cambiare la situazione”.