L’Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ha pubblicato il Rapporto di monitoraggio dei Servizi per l’Impiego relativi al 2020. L’indagine rimarrà utile a lungo, perché l’anno scorso è stato l’approdo di una decennale contrazione di investimenti e di personale rivolti ai centri per l’impiego, ma soprattutto perché è la vigilia delle nuove assunzioni in atto quest’anno da parte delle regioni e dell’imminente rivoluzione che promette di essere GOL, la Garanzia di occupabilità dei lavoratori messa in campo dal governo e connessa ai fondi del Pnrr. La fotografia conferma la difficile condizione dei centri per l’impiego, la carenza di personale specializzato nelle attività volte al ricollocamento occupazionale e di conseguenza l’adempimento quasi esclusivo di servizi di tipo amministrativo, informativo e di primo orientamento. Numeri da non dimenticare, perché gli impegni con l’Europa ci impongono un’accelerata in tempi stretti e verrà presto il momento di confrontare i dati oggi pubblicati con i risultati degli investimenti e delle nuove strategie messe in campo da governo e regioni.
I 551 Centri per l’impiego italiani arrivano sfiancati alla vigilia delle sfide raccolte dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che dedica ampio spazio alle politiche attive del lavoro e promette di rilanciare quella che è ormai un’atavica debolezza delle nostre politiche sociali. Secondo il rapporto Anpal, quello dei Centri è un sistema “sottodimensionato e congestionato”. Tanto che le 11mila assunzioni che proprio in questi mesi, e dopo i ritardi dovuti principalmente alla pandemia, le regioni stanno inserendo nei propri organici, basteranno appena a colmare le attuali esigenze rispetto alle richieste di servizi da parte dell’utenza e le carenze sul piano operativo. Carenza che fino ad oggi ha significato rinunciare a parte dei servizi da erogare, e in particolare a quelli utili al ricollocamento di disoccupati e inoccupati, tanto dibattuti in questi mesi anche e soprattutto in merito al Reddito di Cittadinanza. Scrive l’Anpal: “Almeno il 90% dei Cpi eroga quel mix di servizi amministrativi, informativi e di primo orientamento necessari alla presa in carico dell’utenza e alla stipula del patto di servizio”. In altri termini, il grosso dell’attività è dedicata al primo ingresso dell’utenza nei centri, e alla sottoscrizione di un patto che è sì una condizione imprescindibile per attivare un rapporto tra il Centro e l’utente, ma che molto spesso c’entra poco con la ricerca di lavoro nasconde la formalità necessaria per accedere ad esenzioni come quella del ticket sanitario. E ancora: “Per contro, non meno di un Cpi su quattro lamenta forti criticità di competenze di personale nell’erogazione di servizi specialistici di orientamento e accompagnamento al lavoro. Pertanto, nella situazione fotografata prima dell’atteso rafforzamento, è risultato difficile conciliare questi vincoli operativi con la realizzazione in modo stabile e continuativo di servizi altamente consulenziali per la ricerca di personale per le imprese”. Insomma, di lavoro utile alla ricollocazione delle persone se ne fa poco e male. Perché il personale dei centri è di appena di 7772 unità nel 2019 e in costante calo, ma soprattuto perché si tratta di personale con un’età elevata che si aggira in media sui 55 anni, quasi sempre senza laurea e scarsa preparazione specialistica in merito all’incontro tra domanda e offerta nel mercato del lavoro.
Fatti tanto più allarmanti se poi il rapporto conferma che “gli utenti che si rivolgono ai Cpi sono scarsamente occupabili e richiedono interventi complessi”. Dal 2019 una parte di questi utenti entrano nei centri in qualità di beneficiari del Reddito di cittadinanza e in quanto sottoscrittori, nei due anni precedenti la domanda per il RdC, di un patto di servizio. Ma la difficoltà a trovare loro un lavoro rimane la stessa, come testimoniano gli stessi navigator, che ai centri per l’impiego sono stati affiancati tra mille difficoltà procedurali e strutturali. Ma al netto della gestione dei percettori di sussidi come RdC, Naspi e Assegno di Ricollocazione, appena il 18,3% di chi attraversa la porta di un Cpi ha ricevuto una convocazione, mentre “in larga perte il rapporto di servizio è affidato all’iniziativa individuale dell’utente”. Un dato che deve far riflettere rispetto ai nuovi obiettivi, a partire da quello di formare e riattivare 600mila disoccupati entro il 2022. Impegno per il quale l’Italia e le sue regioni hanno già ricevuto i primi 880 milioni legati al Pnrr, primo tassello di un progetto che intende coinvolgere 3 milioni di persone entro il 2025, “Di questi, almeno il 75% dovranno essere donne, disoccupati di lunga durata, persone con disabilità, giovani under 30, lavoratori over 55”, scrive il governo. Mai come oggi, è il caso di dirlo, dobbiamo augurarci che le regioni sappiano spendere i fondi dedicati alle politiche attive del lavoro. Perché quella che si chiede ai Cpi è ora una vera e propria rivoluzione. Sempre guardando al Rapporto Anpal sul 2020, infatti, va rilevato che la metà di chi ha sottoscritto il Patto di servizio (48,5%) non risulta coinvolta in alcuna iniziativa legata alle politiche attive. Mentre per quanto riguarda coloro che in qualche modo hanno intrapreso una qualche attività di politica attiva del lavoro, appena una su quattro (26,7%) ha invece portato a termine l’esperienza iniziata. Ancora una volta, una platea difficile da ricollocare, anche e soprattutto per le agenzie private. Che tornano in auge in questi giorni perché la Legge di bilancio le coinvolge nella riforma del Reddito di cittadinanza e destinerà loro il 20 percento dell’incentivo, prima rivolto ai soli datori, nel caso in cui l’assunzione di un percettore di RdC sia frutto del loro lavoro. E che avranno un ruolo anche negli ambiziosi obiettivi di Gol. Nel merito, il rapporto di Anpal è un monito: “Questi profili non costituiscono una platea appetibile per l’offerta dei servizi dei privati”. Privati che quindi andranno ben motivati.