Un altro passo è stato compiuto per accompagnare verso il fine vita Samantha D’Incà, la trentenne di Mugnai, una frazione di Feltre, che da quasi un anno è in stato vegetativo per le conseguenze di un intervento chirurgico a una gamba fratturata. Il padre Giorgio ha prestato giuramento in tribunale, tramite videoconferenza, ed è ora l’amministratore di sostegno definitivo della giovane donna. È lui che ora può prendere la dolorosa decisione riguardante l’assenso all’interruzione delle terapie e dei trattamenti che hanno finora impedito la morte di Samantha. In ogni caso la decisione finale spetterà ai medici che seguono la paziente nel Nucleo stati vegetativi della Rsa Sersa di Cavarzano, a Belluno.
Il percorso dovrà seguire l’iter indicato dal giudice Umberto Giacomelli, che crea i presupposti per mettere la parola finale all’agonia di Samantha D’Incà. Il giudice ha preso in esame due ricorsi, il primo del padre della ragazza, il secondo del direttore medico dell’ospedale di Feltre che appartiene all’Ulss 1 Dolomiti. D’Incà si era fratturata un femore per una caduta il 13 novembre 2020. Il 25 dicembre successivo era stata ricoverata nell’Unità neurologica dell’ospedale feltrino “in stato vegetativo da encefalopatia postanossica”. Il 3 febbraio il padre (assistito dall’avvocato Davide Fent) aveva chiesto di essere nominato amministratore in favore della figlia con l’espresso potere “di rifiutare per conto della stessa le cure volte al suo mantenimento in vita e quindi anche la nutrizione e/o idratazione artificiale e di chiederne la sedazione palliativa profonda in associazione alla terapia del dolore”.
Nel frattempo era stata inserita l’alimentazione con il sistema Peg (Gastrostomia endoscopia percutanea). Ad aprile il professore Leopold Saltuari dell’Università di Innsbruck aveva certificato le condizioni di Samantha D’Incà: “Data l’evoluzione clinica, a distanza di più di 4 mesi, una remissione a un’autonomia è da escludere. Lo stato di coscienza attuale è da considerare a un livello di un bambino di 1-2 mesi”. Ad agosto veniva confermata la diagnosi di stato vegetativo senza coscienza. A settembre il Comitato Etico dell’Ulss 1 aveva affermato che “nella probabilità del verificarsi di complicanze e nell’eventualità di una mancata risposta alle terapie messe in atto in struttura, è appropriato valutare di procedere ad una sedazione palliativa profonda”. E poi: “La condizione clinica descritta e l’analisi dei profili bioetici emergenti suggeriscono di non escludere una desistenza dal trattamento di nutrizione artificiale”. Lo stesso Comitato Etico sosteneva la necessità di effettuare una “ricostruzione della volontà della donna” alla luce della Legge 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento.
Il 6 ottobre il padre ha ribadito la propria richiesta al giudice e il 14 ottobre la Procura ha espresso “parere favorevole all’interruzione delle terapie e dei trattamenti di sostegno vitale”. Adesso il decreto del giudice Giacomelli accoglie questa linea, ricordando come la Cassazione contempli non solo la libertà di scelta nella terapia, ma anche di rifiuto o di interruzione della stessa. Nel caso concreto si trattava di stabilire quale fosse la volontà del paziente, ora in coma. Decisive le dichiarazioni del padre: “Samantha ha sempre espresso la volontà di non essere lasciata in condizioni di coma, tenuta in vita da macchinari, se c’è la certezza che non vi sia possibilità di risveglio. Non trovava giusto accanirsi sulle persone che non sono in grado di esprimere la loro volontà… non avrebbe voluto restare in queste condizioni”. Genzianella, la mamma, ha aggiunto: “Samantha aveva dichiarato che un trattamento di questo tipo è da persone egoiste e disumane, un accanimento e una violenza…”. Il fratello gemello: “Lei non voleva chiedere aiuto a nessuno… voleva che le sue ceneri fossero sparse nel mare, non voleva restare in questa situazione e dispiace solo che non lo abbia lasciato scritto”. E la sorella: “Non avrebbe voluto tutto questo, avrebbe voluto che finisse tutto da un momento all’altro”.
Secondo il giudice la volontà di Samantha D’Incà è quindi desumibile in modo “chiaro, univoco e convincente”. Decisivo anche il parere del Comitato Etico riguardante la “persistenza di complicanze e di episodi di rigurgito collegati alla nutrizione artificiale” e i “significativi dubbi in ordine alla proporzionalità della nutrizione artificiale tramite Peg”. Il giudice pone però un paletto. Pur attribuendo all’amministratore di sostegno (il padre) “il potere di prestare consenso all’interruzione dei trattamenti necessari al mantenimento in vita” aggiunge che ciò “non può comportare anche il potere di decidere ‘se e quando‘ sospendere il trattamento di nutrizione artificiale, trattandosi di una decisione che spetta comunque ai sanitari”. Questi lo possono fare in caso di “un severo aggravamento e una mancata risposta alle cure erogabili”, oppure di “rischi di complicanze”. Quindi il padre di Samantha D’Incà non avrà “un potere di impulso in ordine alle decisioni da assumere per l’avvio di un percorso di fine vita”, ma potrà solo esprimere o rifiutare il consenso “rispetto alle cure proposte dal medico”. Ed è questo il percorso finale che comincia con la nomina del padre quale amministratore di sostegno definitivo. Anche perché il giudice ha ribadito, citando una sentenza della Cassazione del 2007, che “il rifiuto delle terapie, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiata per un’ipotesi di eutanasia”.