La Mesopotamia prosciugata da Recep Tayyip Erdoğan. È lo scenario che rischia di realizzarsi se il presidente della Turchia non farà marcia indietro sul cosiddetto Great Anatolia, il faraonico progetto avviato ormai tre decenni fa per regolare il flusso dei fiumi Tigri ed Eufrate nella regione che comprende anche Iran, Iraq, Siria, Arabia Saudita e Kuwait ma rivitalizzato dal leader turco proprio negli ultimi anni. Il piano è quello di costruire 22 dighe e 19 centrali elettriche con i primi invasi che iniziano già ad essere riempiti.
L’Anatolia sudorientale, rotta commerciale di primaria importanza per molti secoli, è di recente tornata centrale nei traffici tra Occidente e Oriente, ma proprio in questo periodo sta registrando la peggiore siccità del secolo. Surriscaldamento globale, riduzione delle piogge, livello ridotto di corsi d’acqua e torrenti stanno rapidamente desertificando la parte dell’area corrispondente al Nord della Siria e all’Iraq. Al punto che in un recente rapporto, il governo di Baghdad ha avvertito che 7 milioni di persone rischiano di rimanere senza acqua potabile. Su questa situazione già di per sé estremamente delicata vanno appunto a innestarsi i rinnovati progetti di Erdoğan, che intende sfruttare i due bacini idrici principali per arrivare a soddisfare il 25% del fabbisogno di energia elettrica della Turchia. Quello studiato dal Sultano si appresta non a caso a diventare uno dei più grandi progetti di sviluppo di bacini fluviali mai realizzati al mondo.
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), nel 2019 più di 21mila persone sono sfollate a causa della mancanza di accesso all’acqua pulita. E il rischio che il numero aumenti ancora rimane alto. Senza contare che decenni di guerre nella regione, e in particolare in Iraq, hanno devastato gran parte delle infrastrutture idriche locali. Le conseguenze ambientali di Great Anatolia potrebbero rivelarsi, insomma, devastanti. Tuttavia non sono le uniche a dover preoccupare perché la questione ha anche ripercussioni politiche. La popolazione curda della Turchia, che rappresenta il 90% di coloro che vivono nella zona interessata, sostiene da anni che i guadagni economici e sociali promessi da Erdoğan non si siano ancora visti, mentre Damasco e Baghdad temono per la continuità dell’approvvigionamento idrico a valle del progetto, nei territori che sono sotto il loro controllo. Attriti che rischiano di rendere il clima in Medio-Oriente ancora più incandescente.