Riceviamo e pubblichiamo la lettera del senatore M5s e giornalista Primo Di Nicola al presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo che, giovedì 11 novembre, ha ricordato il predecessore Giovanni Leone al Quirinale a 20 anni dalla sua morte. Di Nicola è stato uno degli autori, per L'Espresso, dell'inchiesta che portò alle dimissioni dell'allora capo dello Stato
Caro Presidente Mattarella,
grande risalto hanno oggi sui giornali le cronache del Suo intervento durante un incontro al Quirinale sulla figura dell’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone in occasione del ventennale della morte. Risalto doveroso per i risvolti costituzionali e politici connessi alla problematica del secondo mandato da Lei trattata, ma anche per le impegnative parole spese sulla figura di Leone e le polemiche legate alle sue dimissioni. Dimissioni dolorose e secondo altri autorevoli interventi ingiuste per le accuse infondate che al tempo furono mosse.
Solo che fuori dalla porta del Quirinale è rimasta però, mi permetta, una parte importante, decisiva, della verità legata a quelle dimissioni e che soprattutto fanno capo al ruolo giocato veramente dalla libera stampa. Ruolo che qui voglio ricordare e tentare di ristabilire spogliandomi per un giorno delle mie vesti di senatore della Repubblica.
“Difficile ritrovare”, Lei ha detto, “una campagna giornalistica, scandalistica e invereconda, come quella diretta contro il Presidente Leone, secondo un modello altre volte registrato”.
Non indica il modello e non indica gli altri casi. Ma il riferimento alla campagna de L’Espresso e al peso decisivo che gli articoli del settimanale giocarono nella vicenda è evidente. Con la conseguenza di gettare ombre su una delle più belle pagine del giornalismo indipendente italiano. E di dare fiato a chi, anche in questi giorni e anche dagli scranni parlamentari, usa tutti gli strumenti disponibili per gettare fango su quelle testate e quei cronisti che sino in fondo stanno cercando di fare il proprio dovere per fornire ai cittadini le verità più scomode intorno a chi li governa. Magari con l’usuale corollario di dichiarazioni, minacce, intimidazioni e citazioni milionarie che fanno apparire un numero sempre crescente di personaggi pubblici più come dei querelatori seriali che degli onorevoli custodi delle istituzioni.
Nel 1976, Lei ha detto, “aveva fatto irruzione, prima negli Stati Uniti d’America, il caso Lockheed, la multinazionale accusata di avere pagato tangenti a numerosi governi stranieri. Poi lo scandalo sbarcò in Italia per la individuazione della misteriosa figura di un uomo politico nascosto dietro uno pseudonimo. Venne fatto in maniera ignobile il nome di Giovanni Leone, pur sapendo come fosse del tutto estraneo alla vicenda, ed ebbe inizio una stagione di tentativi di delegittimazione che sarebbe culminata in attacchi serrati e sistemici alla figura del Presidente della Repubblica”.
La misteriosa figura di cui stiamo parlando è Antelope Cobbler. Ed è vero che al tempo in tanti finirono per associare questa sigla proprio a Leone. Con i radicali di Marco Pannella e Emma Bonino attivissimi nelle aule parlamentari ad alimentare la polemica. Un azzardo e anche un’ingiustizia, perché mai sono state trovate prove a carico dell’allora presidente. Solo che con questo azzardo L’Espresso non ha mai avuto niente da spartire, perché dalle indagini che per mesi facemmo seguendo i rivoli del fiume di denaro che la multinazionale riversò in Italia con le sue tangenti, nulla portò al Presidente. Mentre, ecco il punto, parecchie ombre e dubbi spuntarono sulla sua condotta fiscale che a L’Espresso documentammo attraverso un’indagine patrimoniale puntualmente riferita anche attraverso la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi. Per questo, presidente Mattarella, a differenza dei radicali, L’Espresso non ha mai avuto motivo di scusarsi. Nessuno dei suoi giornalisti, a cominciare dal direttore Livio Zanetti e Gianluigi Melega, che animò quella campagna, o dal sottoscritto, allora giovanissimo cronista e ormai unico superstite, è mai stato portato in tribunale per quegli articoli.
Per questo, mi consenta ancora Presidente , è sbagliato parlare di “campagna scandalistica e invereconda”. Noi abbiamo fatto solo il nostro dovere di giornalisti, indagando, a lungo e faticosamente e pubblicando solo notizie e fatti documentati. Come capitò nella seconda settimana del giugno 1978, con la puntata decisiva del “Dossier Leone/Lui e le tasse: 8.564.000! Questa la cifra (lire, naturalmente) del reddito dichiarato per il 1973, quando già da due anni era presidente della Repubblica. E intanto, a Le Rughe, a pochi chilometri da Roma…».
Questi erano occhiello, titolo e sommario dell’inchiesta di quella settimana.
L’articolo invece proseguiva così:
«Eppure, dal 1970 in poi, le finanze di casa Leone presentano a un primo sguardo contraddizioni che forse un più approfondito esame sarà in grado di chiarire. Queste contraddizioni sono presto riassunte. Da un lato il patrimonio personale di Leone, della moglie e dei figli appare in condizione rigogliosa, fiorente. Dall’altro, le sue denunce dei redditi non sembrano darne traccia. Pigliamo la denuncia dei redditi per il 1973…».
E siamo al punto cruciale della vicenda che ha portato alle dimissioni di Leone. Mi rendo conto che, come ho scritto in altra circostanza, avendo avuto negli ultimi trenta anni in Parlamento e persino alla testa del governo anche pregiudicati e condannati per ogni tipo di reato, possa oggi sembrare poco rilevante il comportamento non proprio cristallino di un politico verso il fisco. Ma allora, nella vecchia, vituperata prima Repubblica, le cose andavano in maniera diversa: a un uomo pubblico non era permesso prendere i doveri fiscali (e tante altre cose) alla leggera.
Ma andiamo avanti con quelle cinque pagine con le quali L’Espresso raccontava i segreti delle dichiarazioni dei redditi (a quei tempi non erano pubbliche e procurarsele non fu facile) di Leone: entrate, proprietà, cespiti vari, con una grande attenzione alle spese sostenute dal presidente per acquistare e restaurare la famosa villa “Le Rughe”, a qualche decina di chilometri da Roma. «Tutto questo ha avuto un costo. Sulla base delle stime fatte dagli architetti è pensabile che il solo casale rammodernato, tra prezzo d’acquisto e lavori successivamente eseguiti non sia costato meno di un miliardo (di lire). Il valore del terreno circostante può essere calcolato intorno ai 400 milioni: i lavori di sistemazione e di arricchimento dell’ambiente possono essere stimati tra i 200 e i 300 milioni. Con i quadri, i mobili d’antiquariato, le spese di arredamento, l’argenteria e le spese di manutenzione, l’intera villa può essere valutata come un’impresa capace di inghiottire, per essere portata, come è stata portata, a compimento, circa 3 miliardi. Facciamo un taglio generoso: supponiamo che sia costata soltanto 2 miliardi».
Bene: «In quegli anni Giovanni Leone denunciava 9 milioni di reddito (oltre alla pensione della cassa degli avvocati) e suo figlio Mauro, intestatario della villa, ne denunciava 7». Perciò, chiedeva L’Espresso: può il presidente della Repubblica «dire dove ha trovato i denari per pagarsi “Le Rughe”?».
Tutto qua, presidente Mattarella. Altro che scandalistica, invereconda campagna giornalistica. Almeno per quello che ci riguarda. Quella de L’Espresso fu una limpida, grande campagna giornalistica fatta di raccolta di documenti e dati e anche di semplici domande come quella che rivolgemmo all’indirizzo del Quirinale. Solo che la risposta del presidente Leone non arrivò mai. E fu davanti a questi suoi silenzi e non alle ingiuste accuse per le mazzette Lockheed che uomini come i segretari della Democrazia cristiana e del Partito comunista italiano, Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer, sollecitarono infine a Leone le famose dimissioni. Perché potesse meglio difendersi davanti ai rilievi di un libero giornale senza che la sua condotta, come allora si diceva, potesse fare velo alle istituzioni.
Con stima immutata.