Il presidente della Cop26 di Glasgow, il ministro britannico Alok Sharma, vorrebbe chiudere i lavori del vertice entro oggi, esattamente come previsto e con un documento finale che mantenga il mondo sotto 1,5 gradi di riscaldamento. Ma le bozze che si susseguono sui vari aspetti dei negoziati, con passi ambigui sul fronte dei finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo e passi indietro su quello dell’uscita dall’era delle fossili, fanno capire che sarà difficile centrare i suoi obiettivi. La Cop potrebbe chiudersi sabato mattina (anche domenica), ma bisogna capire con quale accordo. Per il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, l’obiettivo di mantenere l’aumento medio della temperatura globale sotto la soglia di 1,5 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale è “in fin di vita” e, di fatto, cresce la sensazione che ormai si punti a fare in modo che almeno resti “raggiungibile” (a vedersi, poi, con quali azioni). “Credo che il mondo sia troppo lontano da dove dovrebbe essere per raggiungere l’obiettivo di limitare a 1,5 gradi il riscaldamento globale. Abbiamo iniziato con 2,7 gradi. Ora ci avviciniamo a 2” ha detto il vicepresidente della Commissione, Frans Timmermans, secondo cui “la stragrande maggioranza dei Paesi presenti a questa conferenza sostiene l’obiettivo di 1,5”. Di fatto molti paesi, anche dell’Ue, si sono più volte tirati indietro in questi giorni su vari fronti, soprattutto per quanto riguarda i combustibili fossili. E non è ancora chiaro quali siano i Paesi disposti ad aggiornare i propri target entro la fine del 2022. Venerdì, terminate le giornate dedicate ai vari temi e agli annunci su emissioni dei veicoli, foreste, uso del suolo, energia e tanto altro, è il giorno della resa dei conti dei negoziati con tecnici e ministri.
LA NUOVA BOZZA: PASSO INDIETRO SULLE FONTI FOSSILI – Nelle ultime ore è stata pubblicata l’ultima bozza del documento finale della Cop26, insieme ad altri documenti, tra cui le nuove bozze della Cma3, la terza conferenza degli stati firmatari dell’Accordo di Parigi e della Cmp16, la sedicesima conferenza degli stati firmatari del Protocollo di Kyoto. Le tre conferenze si tengono in contemporanea a Glasgow. Nella nuova bozza della Cop26, con le osservazioni dei ministri, ci sono alcune novità. Tra le più importanti, l’indebolimento del paragrafo sui sussidi fossili. Perché nonostante il primo degli otto punti del documento sia non più “Scienza”, ma “Scienza e urgenza”, in quello dedicato alla “Mitigazione” è stata apportata una modifica significativa. Se da un lato si invitano le Parti “a prendere in considerazione ulteriori azioni per ridurre entro il 2030 le emissioni di gas a effetto serra diversi dall’anidride carbonica” aggiungendo “compreso il metano”, dall’altro l’invito ad accelerare l’eliminazione dell’energia prodotta dal carbone riguarda solo quell’energia le cui emissioni non possono essere abbattute. “In pratica, solo per centrali a carbone dove non si utilizzano tecnologie come, ad esempio, la cattura e lo stoccaggio di anidride carbonica (Carbon capture and Storage, Ccs)” spiega a ilfattoquotidiano.it Mauro Albrizio, direttore dell’Ufficio europeo di Legambiente. Ed è la stessa formula utilizzata nell’accordo firmato da 23 Paesi (tra cui l’Italia) per bloccare, entro la fine del 2022, nuovi investimenti all’estero legati ai combustibili fossili. “Di fatto, anche per l’eliminazione graduale dei sussidi ai combustibili fossili, si aggiunge la parola ‘inefficient’” sottolinea Albrizio. “È ancora una bozza, ma il problema sono Arabia Saudita, Russia, Cina e Australia” commenta il direttore dell’Ufficio europeo di Legambiente.
PIÙ ATTENZIONE A “PERDITE E DANNI” MA NIENTE DATA DELLA PRIMA TRANCHE DEI 100 MILIARDI – Un altro passo ambiguo, riguarda i finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo. In una bozza del rapporto annuale che uscirà all’inizio del 2022, visionata da France Presse, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dell’Onu scrive che potrebbero essere necessari fino a mille miliardi di dollari l’anno per l’adattamento agli effetti della crisi climatica nel mondo da qui al 2050, e che “i costi di adattamento sono considerevolmente più elevati di quello che si stimava precedentemente”, mentre le disposizioni esistenti sono inadeguate. Nelle ultime ore, l’attivista Vanessa Nakate, inoltre, ha marcato la necessità di un fondo separato per compensare danni e perdite provocate dal cambiamento climatico. Nell’ultima bozza, i punti del paragrafo dedicato a “Perdite e danni” raddoppiano e si fa molta leva sulla già esistente rete di Santiago, che mette in contatto i Paesi in via di sviluppo con operatori, aziende e tecnici che possano aiutarli a evitare, ridurre al minimo e affrontare le perdite e i danni legati ai cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, però, sparisce l’invito ad attivare entro il 2023 il fondo da 100 miliardi di dollari l’anno per i Paesi meno sviluppati. Quella data, indicata anche dall’Ocse, non c’è più.
LE REGOLE PER COMPENSARE LE EMISSIONI DI CARBONIO – Ma c’è un altro aspetto che riguarda le modalità cui cui si dovrebbero raggiungere gli obiettivi, quali che essi siano. Ossia il Paris Rulebook, il libro delle regole per applicare l’Accordo di Parigi e l’articolo 6, che dispone la nascita di un mercato mondiale delle emissioni governato, a livello centrale, dalle Nazioni Unite con regole condivise per compensare le emissioni di carbonio. Un nodo da sciogliere, dato che l’Accordo di Parigi è entrato in vigore già dalla fine del 2020. Prima c’era il Protocollo di Kyoto, che già prevedeva un meccanismo di scambio di emissioni, il Clean Development Mechanism (Cdm), che ha già mostrato più di un limite. Il sistema disegnato dall’Accordo del 2015 obbligherebbe Stati e imprese a pagare per i gas serra che emettono, rimborsando il danno sul fronte del riscaldamento globale. Finora Cina, India e Usa sono le economie che si sono mostrate più contrarie. In Europa questo sistema c’è già (l’Ets): chi produce più CO2 compra quote di emissione dagli Stati che ne hanno ancora, perché ne emettono meno. L’articolo 6 dell’Accordo di Parigi prevede tre tipi di scambio delle emissioni. Ogni Paese parte, di base, dal proprio pacchetto di impegni per ridurle, gli Ndc (contributi determinati a livello nazionale). Il primo meccanismo di scambio (al paragrafo 2 dell’articolo 6) è simile all’Ets, con uno scambio di quote di emissioni fra Stati. Il secondo meccanismo (al paragrafo 4) prevede che uno Stato possa realizzare un intervento di decarbonizzazione in un altro Stato, compensando in maniera prestabilita parte delle sue emissioni. Il terzo sistema (al paragrafo 8) è basato, invece, sulla cooperazione internazionale: uno Stato può realizzare un intervento di decarbonizzazione all’estero, facendolo conteggiare come contributo al fondo da 100 miliardi di dollari all’anno per gli aiuti sulla decarbonizzazione ai Paesi meno sviluppati (quello di cui è scomparsa la data di avvio dall’ultima bozza, ndr).
I NODI DA SCIOGLIERE – Diversi i punti più difficili su cui trovare un accordo globale. Intanto su cosa fare dei crediti sviluppati attraverso il Protocollo di Kyoto e non ancora utilizzati. “Il problema del carry over è rimasto senza soluzione e Paesi come Brasile e Russia vogliono utilizzare quel surplus di crediti all’interno del nuovo mercato delle emissioni, il Sustainable Development Mechanism (SDM), che sostituisce il Clean Development Mechanism di Kyoto. E poi c’è il problema del doppio conteggio contro cui l’Europa si è già schierata alla Cop 25 di Madrid, ma tanto caro al Brasile, che voleva vendere i suoi crediti di carbonio ad altri Stati e, allo stesso tempo, contabilizzarli come riduzioni delle emissioni nazionali. Il problema si pone soprattutto per quei progetti realizzati da uno Stato sul territorio di un altro Stato” commenta Albrizio. Dove si contabilizza la riduzione? Sugli Ndc (Contributi determinati a livello nazionale) di quale Paese incide? “Un altro tema è la necessità che i soggetti pubblici o privati, quando realizzano progetti che producono crediti di emissioni, debbano rispettare i diritti umani e sociali delle comunità coinvolte, secondo la carta Onu”. Basti pensare a quelli che sono spesso stati gli effetti del carbon trading: la localizzazione dei progetti dove il costo è più basso, quindi sulle terre dei piccoli coltivatori e dei popoli indigeni. E poi c’è la questione della trasparenza, con la necessità di fissare regole comuni per stabilire i progressi di ciascuno Stato, evitando che ogni Paese fornisca i dati che più gli fanno comodo.