Nel canottaggio bisogna essere un po’ ballerine e un po’ boscaioli, gli venne da dire una volta durante una telecronaca. Nessun’altra definizione dello sport del remo riuscirà mai a superare

Con la figlia Susanna alla Canottieri Roma (LaPresse)

– in esattezza – quella frase buttata lì, come se fosse una mezza battuta, da Giampiero Galeazzi. Il canottaggio è un mondo piccolo piccolo, fatto di lavoro massacrante e molto volontariato che produce il grande orgoglio di farne parte e quella dignità olimpica che ha ogni sport considerato “minore”. Non sarà questo articolo a svelare che Galeazzi dalla fine degli anni Ottanta agli inizi dei Duemila è stato il più grande testimonial di una pratica sportiva così antica (la Boat race Oxford-Cambridge c’è dal 1829) eppure così dimenticata, almeno nei quattro anni che separano medaglia da medaglia, quando tutti la riscoprono. Non stupisce che non trovi le parole per superare lo shock nemmeno Giuseppe Abbagnale, che Galeazzi con le sue urla ha catapultato fuori per sempre dal club un po’ carbonaro dei canottieri e ora è presidente della federazione nazionale.

L’ambiente del remo – fino ai giovani esordienti che oggi, minuscoli, saliranno su quelle barche lunghissime, pieni di paura di cadere nell’acqua gelida – sa che Galeazzi non era solo una figurina che gridava a beneficio del consueto circo del giornalismo sportivo. Piuttosto è stato quello che ha tirato fuori questo sport – “il più bello del mondo” – da un buco nero.

Galeazzi non era mai sceso dalla barca. La professione non gli aveva fatto mancare nulla – l’amicizia con Maradona, Novantesimo Minuto e la Domenica Sportiva, lo show del varietà – eppure era sempre al campo di regata che si rivolgeva la sua manica a vento. Il racconto di uno sport un po’ strano – in cui si gareggia all’indietro come gamberi, si scorre su e giù su un carrello a rotelle, si muovono gambe e braccia in un ordine apparentemente cervellotico) è diventato mitico grazie alla sua abilità di unire la competenza tecnica alla capacità divulgativa, anzi meglio alla volontà divulgativa: non vedete che è il più mirabolante di tutti gli sport?, appassionatevi con me.

La vita è come il canottaggio, pensano a volte i canottieri, forse un po’ presuntuosi: per arrivare a quegli obiettivi irraggiungibili, a vederli da qui, l’unica strada sono fatica immane e sacrifici massacranti. Un’unica gara di duemila metri, di 6 o 7 minuti, da costruire per l’intero anno con ore di perfezionamento tecnico, allargamento dei polmoni, potenziamento dei muscoli, delle gambe a dispetto di quello che sembra da fuori. Per questo Galeazzi ha sempre visto tutto come un campo di regata: le boe tutte in fila, i pontili di partenza, la torre che segnala da lontano il traguardo. Tre anni fa, già su una sedia a rotelle, a Domenica In, disse, scanzonato e malinconico: mi restano gli ultimi 500 metri. Sembra poco e sembra tanto: è l’ultimo quarto di regata, quando agli atleti non resta che andare a cercare le energie residue, e si intende mentali più che fisiche. Ai 250 iniziano le boe rosse, quando le barche “precipitano sul traguardo” diceva lui, quando era il momento di scatenarsi.

Era stato campione italiano in doppio, con la Canottieri Roma, nel 1968 eppure non fu selezionato per le Olimpiadi di Città del Messico, una cosa che ancora dopo cinquant’anni gli faceva prendere quei cinque minuti: “Amo lo sport e lo odio per questo motivo. È stata la più grande delusione della mia vita. Meritavo di essere titolare – aveva detto ad agosto a Giancarlo Dotto sul Corriere dello Sport – Mi brucia più di prima. Se ci penso divento idrofobo. Una delle più grandi ingiustizie sportive di sempre. Fosse stato oggi sarei andato in automatico e m’avrebbero portato le valigie. C’era un discorso politico sotto, il rapporto tra società e Coni. Se ero dell’Aniene andavo con la tromba”.

Dalla tribuna stampa, come se fosse in barca, Galeazzi lavorava con lo stesso cuore, con la stessa testa. Un collega del Tg1 gli disse una volta che aveva tre anime: quella popolare degli stadi, quella aristocratica del tennis, quella romantica del canottaggio. “La telecronaca di Bisteccone era un crescendo che ti lasciava senza fiato, quasi in apnea fino alla fine – ha scritto tempo fa Eugenio De Paoli, ex direttore di RaiSport – Lui, da ex canottiere, ti faceva salire in barca, il tono e l’enfasi saliva con il salire dei colpi in acqua, metro dopo metro soffrivi con lui e con i ragazzi per quel punta a punta mozzafiato”.

Sentiva addosso le gare che vedeva. Trance agonistica, lucidità, colpo da fenomeno della comunicazione. Una delle telecronache rimaste nella memoria collettiva – dopo quella degli Abbagnale – è quella dell’oro del quattro di coppia italiano a Sydney nel 2000: mentre battezza i quattro azzurri come i Cavalieri delle acque (espressione in uso ancora oggi dopo vent’anni) ed è quasi senza respiro, chiude il quadro con un’ultima pennellata raccontando di un’anatra che vola vicino alla prua azzurra “e ora non ci ferma più nessuno”.

Agli stessi Giochi, nella gara del quattro senza, l’Italia arriva seconda di poco: a bordo della barca britannica c’è Steven Redgrave, che a 38 anni prende il quinto oro in cinque Olimpiadi consecutive e infatti diventerà baronetto. La rincorsa dell’imbarcazione azzurra sembra destinata a riacchiappare la prua inglese e invece il traguardo arriva troppo presto, Redgrave e gli altri sono in anticipo di 38 centesimi. Nella battaglia navale degli ultimi 300 metri Galeazzi riesce a elencare le misure dei remi, raccontare l’attacco degli italiani, tifare per il sorpasso e sembra che faccia tutto con un respiro solo. L’Italia arriva seconda ma è “con la Storia e per la Storia” perché “questo è il canottaggio”. Soffriva quando la Nazionale italiana di canottaggio non prendeva medaglie (“E vinciamo, finalmente!” è il grido liberatorio dopo la vittoria del quattro di coppia), non vedeva l’ora di far vedere il suo sport agli altri. Anche per questo ai Giochi di Atlanta nel 1996 finì in una mezza polemica con il direttore tecnico della Nazionale di allora perché le medaglie non arrivavano e nelle telecronache – era l’accusa dell’allenatore – diceva sempre che gli armi italiani venivano sopraffatti negli ultimi 50 metri (“e così ora tutti si risparmiano prima” era la conclusione del dt, un po’ esagerata). Ha fatto in tempo, nei suoi ultimi 500 metri, a veder “sfondare ogni pronostico” a Valentina Rodini e Federica Cesarini, alle Olimpiadi di Tokyo, con quella tecnica perfetta che fa scuola in tutto il mondo e quel finale fantasmagorico.

A raccontare agli altri il suo sport aveva cominciato nel 1972 alla radio: Mirko Petternella – poi voce storica del rugby – dovette rimanere al palasport in cui si disputavano le gare di scherma. “E così debuttai io – aveva raccontato a Gazzetta.it – Con questa frase: ‘Qui c’è molto vento, le bandiere sembrano di legno’. Pensi che cazzata… Dallo studio Roberto Bortoluzzi disse: “Sì Galeazzi, vai avanti”. Avrà pensato: se questo è l’inizio, annamo bene… Invece me la cavai”. In quarant’anni ha avuto tutto dalla sua storia professionale eppure tre mesi fa ancora si lamentava: “M’hanno tolto il canottaggio due anni prima di andare in pensione. Un dispiacere enorme. Diceva Lello Bersani: tutto è permesso in Rai fuor che il successo, ho pagato questo”.

La Canottieri Roma, oggi (Ansa)

Il canottaggio come casa sua, come il cuore suo. Galeazzi è Galeazzi nei racconti di queste ore di tutti, colleghi e amici, anche perché è nato in quella comunità nella quale, come succede sempre quando si dura tanta fatica insieme, si diventa tutti un po’ fratelli, si riconosce subito una intesa, prima ancora di parlare. Dotto gli aveva chiesto cosa avrebbe voluto commentare, fosse stato a Tokyo: “Io ho cambiato lo stile d’interpretare il racconto dello sport. L’atletica leggera non è nelle mie corde. Mi sarebbe piaciuto raccontare i tornei oscuri che nessuno guarda, quelli sulle pedane, i tappeti, la lotta, queste cose qua”. Questo è il canottaggio.

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