di Claudia De Martino
Sabato 6 novembre scorso una donna albanese di nome Adelina Sejdini si è tolta la vita a Roma gettandosi dal Ponte Garibaldi: i quotidiani hanno riportato che fosse malata di cancro e che si fosse data fuoco per protesta il 28 ottobre scorso davanti a Montecitorio per il mancato rinnovo del suo permesso di protezione umanitaria in quanto apolide. L’Italia infatti ha sottoscritto la Convenzione relativa allo status degli apolidi del 1954 (entrata in vigore nel 1962) il cui articolo 32 invita gli Stati contraenti “a facilitare l’assimilazione e la naturalizzazione degli apolidi” e adottato la legge 92/1991 che prevede la concessione della cittadinanza dopo 5 anni di residenza continuativa in Italia, tuttavia con un cavillo, ovvero che la condizione di apolidia sia successiva all’ingresso nel territorio italiano e non originaria, ovvero qualifica dello straniero già giunto in Italia in quanto apolide.
Sembra un rebus giuridico insensato per i “non-addetti ai lavori” e tuttavia a causa di questa incongruenza è andata persa una vita che lo Stato italiano avrebbe dovuto proteggere, se non in quanto apolide almeno in quanto vittima di una terribile tratta di esseri umani, al cui contrasto l’Italia è vincolata dalla Convenzione sull’azione contro la tratta degli esseri umani del Consiglio d’Europa del 2005, ratificata nel 2011, nonché dal recepimento della Direttiva UE 2011/36/UE.
Cosa sia andato storto nella storia di Adelina, come di altre donne straniere vittime di tratta che si sono rivolte allo Stato italiano in cerca di protezione, è evidente: la legislazione restrittiva in materia d’immigrazione intervenuta dal 2018 ad oggi a seguito della revisione delle norme operata dall’allora ministro degli Interni Salvini, sensibile alla pressione di un’opinione pubblica italiana tendenzialmente ostile all’accoglienza – non ancora sovvertita dall’attuale governo Draghi -, ha sottratto servizi assistenziali minimi ai migranti.
La situazione precaria che si è prodotta di conseguenza è illustrata con estrema chiarezza e ottima capacità divulgativa nel bellissimo libro di Rita Coco e Roberta Ferruti (Una storia scritta con i piedi, Recosol, 2020) che richiama in maniera esaustiva sia i quadri normativi europeo che italiano che hanno “governato” il processo migratorio – per quanto riguarda l’Italia, dalla legge Foschi (1986) ad oggi -, sia l’ottica emergenziale con cui i vari Stati e governi hanno affrontato il “tema immigrazione” quasi si trattasse di un fenomeno destinato naturalmente ad esaurirsi, tralasciando sullo sfondo questioni sociali e politiche strutturali che non hanno fatto altro che esacerbarsi nel tempo.
Tra queste, il contrasto alla tratta degli esseri umani, dal cui fenomeno criminale l’Italia è fortemente interessata (con un numero di vittime annuali che oscillano tra le 657 del 2019 alle 470 del 2020, come riportati dal “Trafficking in Persons” Report, stilato annualmente dal Dipartimento di Stato Usa), ma che riguardano a maggioranza vittime di nazionalità straniera (Nigeria, Cina, Pakistan, Romania, Bulgaria) toccando dunque solo marginalmente le autorità italiane, che infatti vi investono poche risorse. “Una situazione – spiegano, però, Coco e Ferruti nel libro – che era difficile da gestire anche prima del D.I. 113/2018 o “decreto sicurezza”, ma che è diventata emergenziale con l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari che veniva riconosciuto alla maggioranza delle potenziali vittime di tratta”.
Una crisi aggravata da un altro elemento introdotto dal Decreto, l’impossibilità di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo ed ex titolari di protezione umanitaria, che impediva di fatto l’accesso ai servizi essenziali, contro la cui costituzionalità si è poi pronunciata la stessa Corte costituzionale (con sentenza del 20 luglio 2020). E’ questo il motivo per cui il Dipartimento di Stato americano nel suo TIP ha declassato l’Italia a Paese parzialmente sicuro, in quanto “non fornisce la protezione legale per gli atti illeciti che le vittime hanno commesso sotto costrizione dei trafficanti”, ma anche in quanto non si impegna sufficientemente per spezzare le catene del traffico di esseri umani, non valuta adeguatamente i rischi corsi dalle vittime prima delle procedure di rimpatrio forzato ed espulsione (Coco&Ferruti: 228) e, infine, “tollera” che circa 180.000 lavoratori agricoli siano mantenuti in condizioni di potenziale schiavitù (TIP, 2021) e che il 60% delle sue circa 40.000 prostitute di strada (24-27.000 persone) sia soggetto a sfruttamento sessuale come vittime di tratta.
L’Italia emerge, quindi, come un Paese poco virtuoso e solerte nella protezione delle persone straniere fragili, spesso accomunate dalla privazione di diritti loro imposta dalla negazione della cittadinanza o di altro titolo a soggiornare legalmente nel Paese. In uno scenario italiano ed europeo già repressivo e criminalizzante dei flussi migratori, l’epidemia da Covid-19 non ha fatto altro che distogliere ulteriormente l’opinione pubblica dalla chiusura progressiva dei canali di accesso regolari all’Unione Europea, quasi il virus avesse il potere di invertire o fermare i movimenti dei migranti. Coco&Ferruti sottolineano che “gli Stati Ue sono divisi tra coloro che chiedono la ripartizione di richiedenti asilo e rifugiati secondo un sistema di quote e i fautori della chiusura a tutti i costi”, mentre l’Italia, nel suo piccolo, continua a smantellare l’unica eccellenza a cui abbia dato vita, ovvero l’accoglienza diffusa praticata negli Sprar, come si evince anche dalla grottesca condanna comminata al sindaco di Riace Mimmo Lucano.
Con forte pragmatismo ma altrettanta tensione etica, Coco&Ferruti invitano gli italiani a governare meglio il fenomeno migratorio anche “in un’ottica utilitaristica”, ovvero consentendo a “più braccia per lavorare di soggiornare regolarmente in Italia per un necessario riequilibrio demografico che consenta di reggere la pressione del sistema previdenziale in futuro”: qualsiasi approccio, anche strumentale, sarebbe infatti meglio dell’attuale, che pretende di ignorare sistematicamente i problemi degli stranieri irregolari che vivono tra noi nell’illusione che un giorno spariscano tutti simultaneamente, magari a seguito di un’ “epidemia di rimpatri”.