La nuova Liberazione, nella piazza più importante del Paese. La sera del 12 novembre di dieci anni fa. Tre minuti prima delle ventuno. L’auto del premier Silvio Berlusconi arriva in piazza del Quirinale e la folla radunata lì esplode in un boato. Gioia e rabbia. “Ladro, mafioso, bastardo”. Quasi una rivoluzione. C’è pure chi lancia delle monetine, come già contro Craxi al Raphael all’epoca di Tangentopoli. In piazza c’è persino un gruppo di musicisti. Sono professori di conservatorio. Un concerto che si apre con l’Hallelujah per la caduta del governo. Handel.
Il 12 novembre, di sabato, è infatti l’ultimo giorno a Palazzo Chigi del leader di Forza Italia. Un incubo a fasi alterne che va avanti dal lontano 1994. Quattro volte presidente del Consiglio. L’eroe suo malgrado di questa Liberazione è il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Quasi un mese dopo, all’inizio di dicembre, il New York Times lo incoronerà con il titolo di Re Giorgio. In tv, Fiorello nel suo nuovo spettacolo Rai gli dedica al “presidente liberatore” un rap di Fratelli d’Italia.
In dieci giorni, dall’8 al 18 novembre, il ventennio breve di Berlusconi si è sbriciolato sotto la scure dell’Unione europea, tra spread e impegni non rispettati. L’8 novembre la maggioranza berlusconiana, con i Responsabili di Razzi e Scilipoti al posto dello scissionista Fini, alla Camera non ha più i numeri: 308 anziché 316. Il premier va al Colle e promette che si dimetterà. L’indomani Napolitano nomina il primo senatore a vita del suo mandato presidenziale: l’economista Mario Monti. L’investitura è di fatto l’annuncio del suo futuro a Palazzo Chigi. Berlusconi, appunto, si dimette sabato 12. Napolitano incarica Monti e il governo nasce il 16 novembre. Il 17 e il 18, poi, la fiducia in Parlamento.
Berlusconi premier non c’è più. I suoi fedelissimi gridano al “golpe bianco” e al “complotto dei poteri forti”, compreso quel Renato Brunetta che oggi è invece un draghiano di complemento del nuovo Sistema. Questione di poltrone. In ogni caso la fine del Berlusconi di governo non è una tragedia come la rappresentò Nanni Moretti alla fine del Caimano, in un clima da guerra civile davanti al Tribunale di Milano, simbolo di Mani Pulite e degli infiniti guai giudiziari del Satiro di Arcore. No, è una festa in piazza del Quirinale. Dove si alza pure un coro: “Un presidente, c’è solo un presidente”. Meglio, un re. Re Giorgio.
Un Paese in macerie
Il Caimano lasciò un’Italia in macerie. La sua famosa discesa in campo era avvenuta il 26 gennaio 1994. Populista ante-litteram con due decenni d’anticipo su Donald Trump, Silvio Berlusconi travestì il conflitto d’interessi incarnato dal suo impero traballante e indebitato con le banche lanciando una doppia crociata: contro i comunisti e contro il teatrino della politica. In un Paese come il nostro, incline al decisionismo dell’uomo forte, il tycoon del Biscione fu accolto trionfalmente nelle urne delle Politiche del 1994.
La sua sequenza storico-elettorale nel bipolarismo della Seconda Repubblica è unica nelle democrazie occidentali contemporanee: vittoria nel 1994, sconfitta nel 1996, vittoria nel 2001, sconfitta nel 2006, vittoria nel 2008. Il crepuscolo di governo iniziò con gli scandali sessuali del 2009, da quello di Noemi Letizia in poi. Il logoramento di B. favorì la cricca interna di Gianni Letta (si pensi alla P4 del lettiano Luigi Bisignani, faccendiere piduista e pregiudicato che “controllava” le ministre forziste) che nella prassi quotidiana aveva sempre affogato nel gestionismo andreottiano di stampo romano la chimera della rivoluzione liberale mai avvenuta. Dal punto di vista politico, il berlusconismo è naufragato tra la Scilla di Gianni Letta e la Cariddi del colbertismo di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia allergico al taglio delle tasse.
Poi c’è che più che al governo della cosa pubblica, B. ha badato solo a quello della sua cosa privata. Le leggi ad personam sono state decine sia per la sua persona sia per il suo impero economico. Il suo, per molti versi, è stato un regime con due “nemici”: i magistrati e i giornalisti liberi. Quando la Cassazione lo condannò in via definitiva nell’agosto del 2013 i giudici certificarono pure la sua vocazione naturale a delinquere. Così come condannati sono due dei principali cofondatori di Forza Italia: Cesare Previti (corruzione giudiziaria) e Marcello Dell’Utri (mafia).
Destinazione Quirinale
Berlusconi è stato il politico che ha sdoganato istituzionalmente i postfascisti del Msi. Tutte cose note, ma che giova ricordare oggi che il Caimano (85 anni) sogna di fare il presidente della Repubblica confidando nella nuova destra di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Matteo Renzi. Del resto, gran parte della classe politica e della classe dirigente lo ha sempre riverito o raccontato come un politico “normale”, nascondendo o facendo finta di non vedere i suoi reati e i suoi vizi.
Bastava guardare la faccia sbalordita di Bruno Vespa, l’altra sera da Floris, quando Alessandro Di Battista spiegava che Berlusconi ha anche dato soldi alla mafia. Non solo. Per i suoi sostenitori ed estimatori, è come se questi dieci anni senza governo avessero conferito a B. un’aureola di saggio padre della patria. Roba da matti.
In ogni caso, al Caimano va dato atto di essere stato l’ultimo presidente del Consiglio “indicato” dal popolo, benché la Costituzione non lo preveda. Da allora non ce ne sono stati più: Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte (il candidato premier del M5S era il capo politico Luigi Di Maio) e adesso Mario Draghi. Ecco, questi dieci anni formano un cerchio che si apre con Monti e si chiude con Draghi. Ma questa è un’altra storia. O no?