Secondo Status of Coral Reefs of the World, il sesto rapporto annuale degli scienziati e attivisti del Global Coral Reef Monitoring Network (Gcrmn) il raggiungimento della soglia convenzionale di 1,5 gradi Celsius comporterà perdite tra il 70 e il 98% dei sistemi corallini. Aumenti superiori potrebbero portare a conseguenze ancora peggiori
Le barriere coralline sono a rischio scomparsa. A lanciare l’allarme è Status of Coral Reefs of the World, il sesto rapporto annuale degli scienziati e attivisti del Global Coral Reef Monitoring Network (Gcrmn). Dal 2009 al 2018, a causa dell’innalzamento delle temperature degli Oceani, è stato distrutto già il 14% dei coralli, in paradisi naturali come il Mar dei Caraibi, il Mar Rosso e il Golfo di Aden. Una superficie di 11.700 chilometri quadrati, pari al sistema corallino più esteso del mondo, quello australiano. L’effetto più evidente è lo sbiancamento, cioè l’espulsione sotto stress delle alghe, che permettono ai coralli di catturare la luce solare e assumere i colori caratteristici. Le perdite maggiori riguarderanno i prossimi anni: l’Ipcc (Intergovernamental Panel on climate change) nel 2018 le ha stimate tra il 70 e il 90%, quando il pianeta raggiungerà la soglia limite – ratificata definitivamente al G20 di Roma – di 1,5 gradi Celsius.
Le barriere coralline occupano lo 0,2% della superficie del pianeta, ma offrono riparo e nutrimento a circa il 25% delle specie marine. Sostengono inoltre la pesca, il turismo e la sicurezza alimentare di 100 Paesi.
Dal 1998, stima Gcrmn, questo ecosistema fragile è in crisi. Dopo un ventennio di stabilità, dal 1978 in poi, le osservazioni successive del Network che sono state in tutto 2 milioni in circa 1.200 luoghi e 73 paesi, hanno rilevato un cambiamento: un violento incremento delle temperature delle acque di circa 0,5 gradi ha spazzato via l’8% dei coralli viventi alla fine del millennio. Fino al 2010 l’emergenza sembrava rientrata: le temperature nei mari si erano nuovamente abbassate e la popolazione stava tornando ai livelli precedenti. I nuovi coralli però, “proprio come le erbacce che crescono dopo un incendio, erano spesso più vulnerabili alle malattie, al caldo e alle tempeste”, come ha raccontato a Yale 360 il ricercatore David Souter, che coordina il Gcrmn.
Così, nei primi anni 2000 i coralli duri erano il doppio (circa il 30% dell’intero ecosistema) rispetto al tappeto vegetale sotto la barriera (15%). Nel giro di poco però il rapporto si è progressivamente assottigliato: nel 2009 è sceso a 1,5. E il progressivo aumento delle microalghe espulse, di circa il 20%, segnala tuttora il cattivo stato di salute dei coralli. I danni più significativi sono quelli nel Pacifico, dove si trova più di un quarto del totale della popolazione corallina, nei Caraibi e in Australia, dove proprio la protezione della Grande Barriera Corallina è al centro di un aspro braccio di ferro tra il governo di Scott Morrison e l’Unesco.
La situazione è critica anche per le barriere del Mar Rosso, più tolleranti al calore, ma compromesse dall’inquinamento e dalle scorie delle fognature, dell’industria edile e dell’agricoltura. Un altro grande fattore di stress è il turismo intensivo: l’area ospita ogni anno circa 13 milioni di visitatori, il 65% di tutti quelli che entrano in Egitto, secondo Reuters. Questi non solo danneggiano l’ecosistema, ma contribuiscono allo sbiancamento con l’uso delle creme solari. Lo rivela un articolo del 2018 di Cinzia Corinaldesi, docente di ecologia presso l’Università Politecnica delle Marche. Le nanoparticelle di ossido di zinco “a basse profondità ostacolano lo scambio d’acqua – ha spiegato a Middle East Eye – Quando gli amanti dello snorkeling nuotano, la crema rilasciata può influenzare i coralli”. L’ingegnere ambientale, Hamidreza Sharifan, ha riscontrato lo stesso fenomeno anche negli Oceani Atlantico, Pacifico, Indiano e nel Golfo Messico.
L’unico sistema in controtendenza, secondo il rapporto, è il triangolo dell’Asia Orientale: con 600 specie diverse, ospita un terzo dei coralli a livello globale ed è l’unica barriera in espansione dagli anni Ottanta. “Forse la diversità ha fornito una certa protezione dal riscaldamento delle acque – ha dichiarato David Souter – mentre una popolazione sana di pesci e ricci erbivori tiene a bada le alghe”. Si tratta però di un caso unico e anche i segnali positivi come l’aumento del 2% dei coralli nel 2019, sono troppo timidi e troppo pochi per bilanciare le perdite e rispettare l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Occorre ampliare l’elenco delle aree sotto la protezione dell’Unesco e puntare con maggiore decisione sulla ricerca.
Secondo uno studio di Lisa Boström-Einarsson della James Cook University in Australia, i 362 progetti al momento in corso sono costosi e riguardano solo 56 Stati. La loro durata è poi limitata a 18 mesi su piccole aree di 100 metri quadrati. La coltivazione dei coralli nei vivai e il loro restauro sono molto lenti e complessi. Di contro, permettere un aumento di 2 gradi delle temperature globali, porterebbe rapidamente alla perdita del 99% degli ecosistemi marini. Le maggiori tutele devono quindi arrivare dalle istituzioni: “Alla Cop 26 di Glasgow e alla conferenza sulla biodiversità a Kunming – ha commentato Inger Andersen, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) – i governatori possono salvare le nostre barriere coralline, ma solo se sono disposti a passi coraggiosi. Non dobbiamo lasciare che le generazioni future ereditino un mondo senza coralli”.