Fabio D'Agata, 49 anni, denunciato il direttore dei lavori del cantiere affidato dalla Regione Siciliana alla sua ditta, la Consolidamenti Speciali di Acireale. Un lavoro da quasi due milioni di euro utile a mettere in sicurezza un costone roccioso a San Marco d'Alunzio, centro di neanche duemila anime all'interno del Parco dei Nebrodi
“Bisogna capire che solo denunciando le cose potranno cambiare. Uniti si può scardinare questo sistema, perché gli imprenditori onesti sono la maggior parte”. Poche ore dopo la notizia dell’arresto di Basilio Ceraolo, 70enne ingegnere finito ai domiciliari su disposizione del Tribunale di Patti (Messina), il telefono di Fabio D’Agata, squilla a ripetizione. Quarantanove anni, D’Agata è l’imprenditore siciliano che ha denunciato il direttore dei lavori del cantiere affidato dalla Regione Siciliana alla sua ditta, la Consolidamenti Speciali di Acireale. Un lavoro da quasi due milioni di euro utile a mettere in sicurezza un costone roccioso a San Marco d’Alunzio, centro di neanche duemila anime all’interno del Parco dei Nebrodi. A voler fare la cresta sull’intervento sarebbe però stato Ceraolo che, nei panni di colui che avrebbe dovuto vigilare sulla corretta esecuzione delle opere, ha proposto all’imprenditore di risparmiare nell’acciaio da utilizzare per poi dividere la somma che sarebbe stata comunque frodata. Un’offerta che D’Agata ha finto di accogliere, andando a denunciare tutto alla Guardia di finanza.
Quando ha capito che nell’operato del direttore dei lavori c’era qualcosa che non andava?
“Pochi mesi dopo l’apertura del cantiere, quando abbiamo iniziato con la realizzazione dei muri e l’utilizzo dei relativi tiranti in acciaio, mi ha avvicinato e mi ha chiesto di usare tiranti meno lunghi. In un primo tempo avevo pensato che quella richiesta nascesse dalla volontà di recuperare economie da usare per eventuali imprevisti nel cantiere, ma poi ho capito che aveva in mente qualcosa di diverso”.
Ridurre i tiranti non avrebbe comunque compromesso la sicurezza dell’opera?
“No, per il semplice motivo che mi sono accorto che il progetto, redatto dallo stesso ingegnere, prevedeva una lunghezza dei tiranti più che abbondante rispetto alla roccia da raggiungere. A posteriori non escludo che l’intenzione di lucrare ci fosse già a monte, prevedendo forniture in misura maggiore al necessario. Ma c’è di più”.
Cioè?
“In un primo momento, il direttore, probabilmente credendo che noi stessimo risparmiando autonomamente nell’uso dell’acciaio, un paio di volte è venuto in cantiere chiedendo di fare verifiche. Forse sperava di trovarci in fallo e poi a quel punto di ricattarci. Invece, quando ha visto che stavamo seguendo il progetto meticolosamente, mi ha espressamente chiesto di creare una riserva di circa duecentomila euro. Somma che poi ci saremmo spartiti”.
Qual è stata la sua reazione?
“Ho preso tempo, non mi sono sbilanciato. Ma sapevo già che lo avrei denunciato”.
Come sarebbe dovuto avvenire il pagamento della mazzetta?
“Inizialmente voleva i soldi in contanti, mi ha anche consegnato dei veri e propri pizzini con i dettagli sulle modalità con cui bisogna arrivare al totale. Poi, quando ho iniziato a prendere tempo affermando di non avere a disposizione tutta quella liquidità, mi ha suggerito di sovrafatturare delle forniture assicurandomi che ci avrebbe pensato lui a contattare i fornitori e recuperare il sovrapprezzo che avrebbe trattenuto per lui”.
Non sarà stato semplice gestire le richieste.
“Con il passare delle settimane erano sempre più insistenti e siamo arrivati al punto che alcuni pagamenti che ci spettavano per i lavori effettuati iniziavano a ritardare. Un tipo di ostruzionismo che avevo messo in conto e che purtroppo diventa un’arma in mano a funzionari infedeli”.
C’è stato un momento in cui lei ha deciso di coinvolgere anche la Soprintendenza, suscitando l’irritazione dell’ingegnere. Che è successo?
“Nel corso degli scavi abbiamo rinvenuto dei reperti archeologici, così mi è parso naturale informare la Soprintendenza che, a sua volta, ci ha detto di coprire la zona in attesa dell’arrivo degli esperti. Quando Ceraolo è venuto a conoscenza di ciò si è adirato dicendo che erano soltanto quattro cocci e che, se mi fossi rivolto a lui, avremmo trovato il modo per proseguire senza intoppi. In realtà, poi, nel corso di un confronto alla presenza anche dei funzionari della Soprintendenza si è capito che quel progetto era stato approvato senza ricevere il parere dal punto di vista archeologico e paesaggistico”.
È la prima volta che denuncia questo tipo di pressioni?
“No, l’ho fatto già altre volte in passato. Ci è capitato di ricevere intimidazioni e richieste di estorsioni dalla criminalità organizzata, sia siciliana che calabrese, ma anche da parte di funzionari pubblici. In quest’ultimo caso le imprese si trovano ancora più in difficoltà perché, come detto, il rischio è di rimanere impantanati negli ostruzionismi dei burocrati”.
Come giudica l’attuale situazione nel settore degli appalti?
“Viviamo in un’epoca dove c’è una grande carenza in materia di trasparenza. E mi sento di dire che più le procedure sono opache e discrezionali, più la corruzione trova terreno fertile. Gli affidamenti diretti, ma anche le procedure a inviti e quelle con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa prestano il fianco a questi fenomeni”.
Proprio nei mesi scorsi il governo nazionale ha varato il decreto Semplificazioni bis che interviene anche in materia di aggiudicazione degli appalti.
“La necessità di velocizzare le procedure di gara esiste, ma non può essere barattata con la trasparenza. Non si può affidare tutto alla discrezionalità di chi seleziona le imprese da invitare e chi giudica le proposte progettuali. A pagarne saranno sempre più quelle imprese oneste, che non vantano rapporti privilegiati con le stazioni appaltanti”.
Trent’anni fa in Sicilia si iniziò a parlare di tavolino degli appalti. L’espressione venne fuori con Angelo Siino, il ministro degli appalti di Cosa nostra. Non è cambiato nulla?
“Non più di tanto. All’epoca credo che la criminalità organizzata nella maggior parte dei casi partecipasse alle spartizioni come entità esterna a cui bisognava riconoscere una percentuale. Oggi, e le cronache giudiziarie a tutte le latitudini lo raccontano, le mafie hanno un volto imprenditoriale, stanno sul mercato”.
L’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione, si è più volte espressa sul tema della trasparenza.
“Esistono diverse linee guida a cui rifarsi, però poi serve che le stazioni appaltanti le seguano e che quando non lo fanno qualcuno intervenga. Per esempio, parlando di sorteggi per selezionare le imprese da invitare alle gare a procedura negoziata, chi è del settore si accorge come alcune imprese vengano sorteggiate con una frequenza che sfida qualsiasi legge della probabilità. Lo stesso si può dire per il mancato rispetto del principio di rotazione la cui applicazione sulla carta dovrebbe essere semplice”.
Cosa si sente di dire a quegli imprenditori che soffrono questo stato di cose ma non hanno il coraggio di denunciare?
“Semplicemente che è l’unico modo per iniziare a cambiare le cose. Con il pizzo lo si è iniziato a fare, sempre più persone rispetto al passato alzano la testa. Lo stesso bisogna fare con i tentativi di corruzione. Finché lo si fa in pochi si rischia perché ci si espone in prima persona, ma se ci si unisce allora sì che si può innescare un cambiamento positivo. E io ci credo perché la maggior parte degli imprenditori è onesta”.