Un sonaglio ritrovato in una fossa comune: probabilmente è stato questo il fatto di cronaca, avvenuto qualche anno fa durante la riesumazione di alcune vittime della Guerra civile, che ha permesso a Pedro Almodóvar di cominciare ad imbastire la sceneggiatura di Madres Paralelas, uscito il 28 ottobre e ancora nelle sale. La ricerca del sonaglio è infatti uno dei filoni della narrazione. In realtà, però, il cineasta spagnolo stavolta non ha dovuto lavorare troppo di immaginazione: la storia, anzi le storie erano già lì, nascoste tra le pieghe di una società che per abbracciare il futuro ha dimenticato in fretta il passato e lo ha relegato all’ambito privato.
Alla fine della Guerra civile infatti, con l’instaurazione della dittatura, ebbe la meglio anche la retorica franchista, che giustificava la guerra appena conclusa come una necessaria operazione di pulizia della società in senso cristiano-conservatore dal germe socialista. Questa retorica resistette anche negli anni della Transizione alla democrazia: forti di una epurazione non avvenuta, i vertici del potere approvarono la Legge di Amnistia, che estinse i reati del franchismo, e impedirono che i traumi della guerra civile, ancora agitata come spauracchio a differenza dei quarant’anni di regime venuti subito dopo, potessero essere correttamente assimilati. Lo Stato non si incaricò delle vittime: niente lapidi o statue che ricordassero quella carneficina. Tutto rimase confinato nelle case e nelle genealogie delle famiglie delle vittime, incapaci così di redigere e portare alla luce una storia collettiva.
Dunque questo film si pone in contrapposizione alla politica attuata da Mariano Rajoy, presidente del Consiglio al tempo dell’ambientazione della storia (il 2016), che – come ricorda il protagonista maschile Arturo, interpretato da Israel Elejalde – decise di derogare di fatto la Legge della Memoria Storica, approvata nel 2007 dal socialista Zapatero proprio per ridare dignità e giustizia alle vittime del franchismo, destinando zero euro del bilancio statale alla riapertura delle fosse comuni e al recupero dei caduti. Non per nulla fu proprio Almodóvar, durante la cerimonia dei premi Goya 2017 (gli Oscar del cinema spagnolo), a scagliarsi contro José Ignacio Wert, ministro della Cultura del primo governo Rajoy, escludendolo dalla lista “degli amici del cinema e della cultura” cui si rivolgeva nel suo discorso.
Ma se la questione della memoria storica resta sullo sfondo, c’è un’altra vicenda che emerge prepotente dalle scene del film: lo scandalo dei niños robados. Dagli anni Quaranta fino ai primi anni Novanta, ormai in piena democrazia, molti neonati furono fatti sparire e con una scusa qualunque (di solito, la morte prematura del bebè) sottratti alle legittime madri per essere affidati alle famiglie conniventi col regime. Si stimano circa 300mila casi di bimbi rubati: una enormità, se si pensa che – almeno stando alle cifre ufficiali – i desaparecidos argentini durante la dittatura di Videla sono stati 30mila. Nemmeno su questo si è potuto far fronte comune: con la frammentazione dell’arco costituzionale spagnolo, che ha rotto il sistema bipartitico, e con l’eterna questione catalana anche la politica si è spaccata e lo Stato è ben lontano dall’assumere sulle proprie spalle il peso di anni di rapimenti e sparizioni.
Il personaggio di Janis, interpretato da una magistrale Penelope Cruz, unisce in questo senso le due vicende: donna emancipata e coraggiosa, cresciuta da una famiglia matriarcale, madre sola e nipote di una vittima del bando franchista, scoprirà a proprie spese il senso di una vita di menzogne. Il sacrificio che dovrà affrontare sarà altissimo, ma il messaggio del regista alla società spagnola è chiaro: la verità deve venire prima di tutto, anche a costo di enormi sofferenze. Solo dall’affermazione della verità può passare la via della rinascita.