Critiche nemmeno velate al governo, che ha “teso a diluire e ritardare gli aspetti più incisivi delle riforme” dando “un’immagine di arrendevolezza“. E diverse frecciate rivolte direttamente al premier Mario Draghi: dieci anni fa, da governatore di Bankitalia, citando Cavour richiamava la politica a farle per tempo (mentre ora rinvia). E a fine 2011 era tra gli “economisti, politici e banchieri centrali che chiedevano un’austerità sempre maggiore, e un corsetto chiamato fiscal compact, a un’Europa e a un’Italia già in recessione“. Poi un appello ad aprire la discussione su “tassa di successione, tassa sul patrimonio e progressività” per “contenere le disuguaglianze“. Chiosa finale all’insegna del sarcasmo: “Non sapevo che il semestre bianco, oltre ad impedire al capo dello Stato di sciogliere le Camere, impedisse al governo, al Parlamento, all’opinione pubblica di concentrarsi sui problemi vitali per l’Italia“. Le stoccate arrivano – via prima pagina del Corriere della Sera – da Mario Monti.
Nell’editoriale intitolato “Facciamo le riforme (subito)” L’economista e presidente della Bocconi omette però di specificare come sia stato proprio lui nel marzo 2012, da premier, a firmare il patto di bilancio europeo che impone il contenimento dei deficit e la riduzione progressiva del debito pubblico. Dopo aver garantito, nel dicembre 2011, che l’Italia condivideva “pienamente la visione di disciplina fiscale avanzata dal presidente della Bce Mario Draghi”, che nel dicembre 2011 coniò il termine “fiscal compact” per definire il patto con cui i Paesi europei avrebbero dovuto rispondere alle preoccupazioni dei mercati impegnandosi a rispettare stringenti paletti sulle finanze pubbliche. Quanto all’opportunità di introdurre una patrimoniale, val la pena di ricordare che Monti da un lato introdusse l’Imu da pagare anche sulla prima casa indipendentemente da altri redditi e ricchezze (la Ue infatti la criticò perché iniqua), dall’altro rivendicò con convinzione la decisione di guardarsi bene dall’aggredire i grandi patrimoni: “Avremmo potuto, per fare bella figura, mettere in piedi un meccanismo nuovo per avere informazioni che ci consentiranno tra due anni di avere un’imposta sulle grandi fortune come quella francese”, spiegò. “Avremmo ottenuto forse fra 2 anni un po’ di gettito, ma oggi un po’ di fuga” di capitali. Troppo complicato, insomma.
Eppure oggi per l’ex premier “è inconcepibile che in un Paese nel quale non funzionano più gli ascensori sociali ed esistono profonde disuguaglianze, nel plauso generale e nella tolleranza anche da parte dei governi più illuminati, ci si rifiuti di affrontare il tema”. Certo, il clima nel frattempo è cambiato e l’austerity non piace più a nessuno. Compreso l’economista il cui governo tecnico, subentrato a quello di Silvio Berlusconi con cui lo spread aveva superato i 500 punti base, per affrontare la crisi del debito varò una manovra estremamente restrittiva che stando a successive analisi del Tesoro ha affossato la crescita costando all’Italia 300 miliardi di mancato incremento del pil.
Acqua passata: oggi l’Europa non è più che quella che “anche spinta dalla Bce, in particolare con la lettera dell’agosto 2011 al governo Berlusconi (firmata da Draghi ndr), ci toglieva l’ossigeno finanziario per rendere più accettabili socialmente le riforme”. Per la prima volta Bruxelles “mette a disposizione degli Stati membri, dell’Italia più di ogni altro, ingenti donazioni e prestiti; sospende ogni vincolo sui bilanci degli Stati; crea moneta senza limiti e la dà agli Stati e alle imprese. Una fase che sta permettendo di spendere a prestito con tassi di interesse molto bassi o addirittura negativi”. Congiunzioni astrali che, fa capire Monti, non sono un “nuovo paradigma destinato a durare ancora a lungo” come pensano “alcuni economisti, politici e banchieri centrali (Draghi? ndr) che dieci anni fa chiedevano un’austerità sempre maggiore, e un corsetto chiamato fiscal compact, a un’Europa e a un’Italia già in recessione” bensì si infrangeranno “tra non molto sugli scogli dell’inflazione, dei tassi di interesse in crescita e delle profonde disuguaglianze che ha alimentato”. E allora “l’urgenza emerge chiara”. Nel caso dell’Italia, per l’ex premier, “le urgenze sono tre: le riforme per la crescita; il controllo della finanza pubblica; una seria lotta contro le disuguaglianze”.
Per quanto riguarda le riforme, il giudizio sull’azione del governo è negativo: “In questi mesi si è avuta l’impressione che il governo abbia teso a diluire e ritardare gli aspetti più incisivi delle riforme. Le mappature sono utili, ma in molti casi si può agire prima che siano completate. Le concessioni balneari non saranno il settore più importante dell’economia italiana. Ma i rinvii, dopo che si sono già pronunciate le istanze giudiziarie italiane ed europee, danno un’immagine di arrendevolezza, perfino del migliore dei governi, di fronte a lobby che sembrano forti solo perché i partiti si inginocchiano di fronte a loro alla ricerca di voti. Questo, sia permesso osservare, si può capire in un governo balneare. Non in un governo Draghi, che deve trasformare l’Italia e che opera nelle condizioni più favorevoli (pandemia a parte, beninteso) che si possano immaginare”.
Pure sul controllo della finanza pubblica non ci siamo: Monti cita un editoriale di Carlo Cottarelli in cui si auspicava che non fossero rimandati “interventi politicamente difficili, come invece viene fatto a suo giudizio nella legge di bilancio”. E aggiunge di avere “una preoccupazione sotto il profilo culturale”: “Nella tradizionale cultura economica degli italiani, non si può dire che il debito pubblico sia mai stato una delle maggiori preoccupazioni. (…) Credo che il termine debito buono vada impiegato con estrema parsimonia e, come ha fatto di solito lo stesso presidente Draghi, con precise qualificazioni. Se non vogliamo rendere ancora più difficile una buona politica economica in Italia, stiamo attenti a non assecondare, in un popolo che spesso vede solo i benefici del debito pubblico e non i suoi costi, una pericolosa disinvoltura“. Stavolta il riferimento sembra a Francesco Giavazzi, docente della Bocconi e oggi consigliere di Draghi, che dopo aver sostenuto per anni il concetto di “austerità espansiva” (per crescere bisogna tagliare la spesa pubblica) si è a sua volta convertito al keynesismo e nei giorni scorsi ha detto durante un incontro pubblico che “il debito è un concetto del secolo scorso“.
Infine, le disuguaglianze. Monti ostenta un’inedita attenzione al problema. Anche se per illustrare la propria posizione cita come voce autorevole sulla materia, prima dell’economista e suo ex ministro Fabrizio Barca, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi (secondo cui la legge di Bilancio fa poco per ridurre le disuguaglianze gravi a sfavore dei giovani e delle donne). Segue la richiesta di intervenire attraverso il sistema fiscale, con strumenti come imposta di successione e tassa sul patrimonio che “esistono anche nei Paesi in cui la pressione fiscale complessiva è minore che in Italia, perché la spesa pubblica è inferiore (a proposito, e la spending review?)”. Da noi invece “si invoca la flat tax; delle altre due, non è mai il momento per parlarne”. Non fu il momento nemmeno nel 2012, nonostante l’emergenza avesse convinto molte forze politiche che una patrimoniale sarebbe stata giusta e necessaria. In quell’anno, complice la grave recessione europea da noi esacerbata dal decreto Salva Italia, le persone in povertà assoluta sono aumentate secondo l’Istat da 3,4 a 4,8 milioni mentre l’incidenza della povertà relativa è salita da 11,1 a 12,7%.