“I can get quiet emotional”. “A volte divento molto emotivo/a”. Così, nero su bianco. Inchiostro da antica macchina da scrivere su carta porosa. Il cuore sussurrato, nascosto, profondo, pulsante di Un anno con Salinger – nelle sale italiane grazie ad Academy Two – è questo. Il dettaglio di una delle tante lettere che i fan, gli ammiratori, i lettori de Il Giovane Holden inviano a valanga a J.D. Salinger presso l’agenzia letteraria newyorchese che lo rappresenta. A fare da filtro, a questa dimostrazione di affetto e vicinanza versa la celebrità letteraria isolata dal mondo, si ritrova all’improvviso la giovane laureata, aspirante poetessa, Joanna Rakoff (Margaret Qualley) appena selezionata dall’austero capo dell’agenzia, Margaret (Sigourney Weaver). Joanna però ha un ordine preciso: non rispondere a nessuno, anzi cestinare.
Jerry – Salinger in agenzia lo chiamano così – non si relaziona con nessuno ma, appunto, la ragazza tutta pizzetti e polsini bianchi, sobrie camicette svolazzanti e ballerine ai piedi (l’antiquata e antitecnologica agenzia oltre a tenere spenti i nuovi computer – siamo a metà anni novanta a New York – non vuole nemmeno sneakers e felpe con cappuccio indossate dai dipendenti) proprio indifferente, rispetto a quella spinta della plebe lettrice che ha eletto Il giovane Holden simbolica e cruciale epitome letteraria dell’esistenza, non riesce ad esserlo. Ecco allora pescate in mezzo alla massa le parole scritte nel continuo flusso di lettere da un ragazzetto di provincia a Salinger, parole che diventano e si sovrappongono a quelle di Joanna: “No, non puoi rivelare al mondo le tue emozioni, ma se non le puoi rivelare al mondo cosa ne dovresti fare?”.
Un anno con Salinger quindi è un film che si accontenta dell’ombra del celebre scrittore, delle sue spalle in campo lungo, della sua bocca tagliata dall’angolo dell’inquadratura, di un vocione rutilante da sordo al telefono (a proposito l’attore è Tim Post). Al centro del discorso c’è invece questa voce emotiva che va silenziata, rimossa, infilata bene bene giù in fondo nella valigia dei sogni. Una sorta di fantasma sensoriale, umano, psicologico che aleggia sinuoso per poi apparire ogni tanto verticale nell’ordinarietà orizzontale della professione della segretari tutta musino dolce, acqua, sapone e tentativi di graziosa ribellione (risponde a qualche lettera firmandola da sola, fornisce le proprie opinioni sui manoscritti inediti, ecc..) di Margaret.
La scrittura apparentemente semplice del regista canadese Philippe Falardeau (tratto dal libro autobiografico della stessa Makoff) ha invece una sua fascinosa e precisa torsione drammaturgica attorno ad un personaggio altrettanto apparentemente semplice come quello di Margaret che la Qualley (Brad Pitt in C’era una volta a Hollywood l’aveva caricata in auto mentre faceva autostop per la fattoria di Charles Manson) propone garbato e autentico, mai fisicamente ingombrante nonostante l’iperpresenza in campo, micro espressioni puntuali e capigliature che si arricciano e si sciolgono a segnare cambi di passo interiori, tutto intriso di quella dubitativa riflessione dell’anima: l’emozione è debolezza? Ebbene la meraviglia di Un anno con Salinger, ricamato con grazia quasi intuitiva da Falardeau, è nel non proporre mai un’inquadratura inutile o fuori posto, nella maturazione materica minuto dopo minuto dell’ispessirsi di trama e ordito, nello svolazzo stilistico improvvisamente e magicamente musical. La composizione fotografica nobilmente retrò è di Sara Mishara. Lo colonna sonora di Martin Leon evoca una vibrante purezza classicista. Mentre la Weaver rifà con delicata e straordinaria maestria una specie di Miranda di Un diavolo veste Prada senza l’istrionismo della Streep. Un anno con Salinger ha una spirituale affinità elettiva, il paragone è tutto nostro, con Il posto di Ermanno Olmi.