La più semplice ed efficace analisi degli esiti della conferenza sul clima di Glasgow si può probabilmente leggere nel prezzo del carbone, balzato sui massimi da 12 anni. La conferenza Cop26 si è aperta con l’idea di fissare un impegno e una data per la dismissione totale del più inquinante tra i combustibili fossili. Si è chiusa con un molto più generico impegno a ridurne l’utilizzo. La fine del carbone, da cui deriva circa un terzo dell’elettricità prodotta nel mondo, si allontana. I prezzi che negli Usa sfiorano ormai i 90 dollari (78 euro) a tonnellata, sono stanti spinti al rialzo anche da altri fattori. Certamente però quanto andava emergendo dal vertice non ha avuto nessun contraccolpo negativo, anzi. A far aumentare le quotazioni del carbone è innanzitutto l’alto prezzo del gas che induce a spostarsi su altre fonti più economiche. Negli Stati Uniti, le generazione da carbone è cresciuta quest’anno del 22% segnando il primo rialzo dal 2014.
I grandi consumatori di carbone sono tuttavia Cina e India, i due paesi che non a caso hanno annacquato il documento uscito da Glasgow. La crescita della generazione di elettricità da carbone negli ultimi 10 anni è riconducibile per il 95% a questi due soli paesi. Il 62% dell’energia prodotta lo scorso anno in Cina proviene dal carbone, in India addirittura il 72%. Ogni giorno dalle miniere dei due paesi escono 14 milioni di tonnellate di carbone. Secondo gli esperti un’uscita più lenta da questa fonte, come delineata nel vertice scozzese, è incompatibile con gli obiettivi di contenimento dell’aumento della temperatura globale. L’Agenzia internazionale dell’energia, organismo riconducibile all’Ocse, ha recentemente avvertito che per raggiungere i traguardi di riduzione delle emissioni di Co2 concordati a Parigi nel 2015 gli investimenti in combustibili fossili dovrebbero azzerarsi immediatamente.