Immaginate di poter accedere, comodamente seduti da casa, all’opera completa di Giacomo Leopardi. E di poterla non solo vedere in foto, ma anche studiare conoscendone il luogo di conservazione e le caratteristiche principali. No, non parliamo solo del ben noto Zibaldone, ma anche di tutte le lettere, i manoscritti e quant’altro che il poeta di Recanati ha prodotto nell’arco della sua vita, seppur breve (1798 – 1837). In tutto si tratta di circa 17mila pagine. Un patrimonio enorme sparso in più di 80 istituzioni, tra cui, solo per citarne alcune, Cambridge, la biblioteca Nazionale di Napoli, la Nazionale di Firenze, che oggi, grazie al lavoro di digitalizzazione e catalogazione di un dottorando dell’Università di Macerata, Gioele Marozzi, e della stessa biblioteca campana, potrà essere scoperto da tutti, appassionati, studiosi o semplici lettori del poeta di Recanati.
Il lavoro, che in precedenza non era stato mai portato a termine, nonostante vari tentativi, come racconta l’autore della ricerca al Fatto.it, è stato lungo e non semplice. E anche la pandemia da Covid-19 non ha aiutato, rendendo complicato raggiungere tutti gli 85 luoghi in cui sono conservati i manoscritti autografi leopardiani. “Dalla fine dell’800 – racconta Marozzi – Ci sono stati quattro o cinque. Tutti incompiuti“. Per questo, con l’occasione del bicentenario dalla composizione de L’infinito, caduto nel 2019, la poesia per eccellenza di Leopardi, conosciuta anche dai più piccolini, il Centro Nazionale di Studi Leopardiani, ha ideato insieme alla Biblioteca Nazionale di Napoli il progetto: catalogare tutte le carte del fondo delle Carte Leopardi dando vita alla Biblioteca digitale leopardiana. Un lavoro cominciato inizialmente da Napoli che ben presto si sarebbe mosso su due binari: da una parte la biblioteca campana avrebbe catalogato e digitalizzato il proprio fondo, composto da circa 11mila pagine, di cui quasi 5mila riguardanti solo lo Zibaldone, dall’altra un progetto parallelo, da realizzare sulla restante parte delle pagine (circa 6000) sparse in giro per il mondo.
“Nel 2018 la scuola di dottorato dell’Università di Macerata ha attivato insieme con la Regione Marche e l’azienda falconarese Filippetti un progetto cofinanziato – spiega ancora Marozzi – L’obiettivo era occuparsi di tutti gli altri enti del mondo che ospitano carte leopardiane. Quindi è stato proposto di fare, appunto, una catalogazione e digitalizzazione dei manoscritti autografi conservati fuori dalla Nazionale di Napoli”. Da qui è nata la borsa di studio “a tematica vincolata” messa a bando dalla scuola di dottorato dell’università marchigiana. “Per ottenere la borsa dovevamo specificare come portare avanti il progetto, io ho proposto di realizzare un catalogo con Manus online (un software di catalogazione e visualizzazione catalografica dedicato ai manoscritti ndr.) e di digitalizzare il tutto seguendo il protocollo Iccu (Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane e per le Informazioni Bibliografiche)”. Vinta la borsa di studio, Marozzi prima di mettersi al lavoro sul campo ha dovuto fare un attento lavoro di ricerca. “Bisognava capire dove fossero conservati i manoscritti, come catalogare, quali dati valorizzare di più nelle singole schede e anche come digitalizzare, cioè quali fossero gli strumenti migliori”. Già perché, essendo un lavoro totalmente inedito, gli esempi da cui poter attingere non erano molti, e, soprattutto, mancando un precedente catalogo universale delle opere, era necessario prima individuare dove fossero. Per esempio, nonostante la differente qualità, visto il lavoro necessariamente itinerante, era impensabile utilizzare strumenti ingombranti o difficilmente trasportabili “per questo ho optato per una macchina fotografica con tutti gli accessori per rendere al meglio il documento senza rinunciare alla qualità”.
“Da novembre 2018 a novembre 2019 quindi – puntualizza – ho cominciato un lavoro di ricerca“. Un impegno che poi, di fatto, anche passando alla parte pratica, a novembre 2019, “non si è mai interrotto“. Non è stato raro, infatti, durante il lavoro, imbattersi anche all’ultimo in manoscritti prima mai individuati. “Tu continui a leggere e – mano a mano – spunta fuori qualcosa di nuovo. Bisogna verificare la notizia e poi, ovviamente ritrovare il manoscritto. Nel caso di collezioni pubbliche è relativamente semplice, mentre in caso di manoscritti privati spesso le segnalazioni si perdono, a meno che non siano opere notificate alle soprintendenza – dice Marozzi -Fanno centomila passaggi di mano, e se non sono notificati potrebbero essere ovunque, impossibili da trovare”.
Tre sono i principali fondi in cui sono conservati i manoscritti autografi: la Biblioteca Nazionale di Napoli, rimasta fuori dal lavoro del dottorando, la Nazionale di Firenze e Casa Leopardi a Recanati. Ma non solo. Marozzi in questi tre anni, di cui uno totalmente dedicato alla ricerca, appunto, ha girato in lungo e in largo l’Italia, fotografando di pagina in pagina ogni singolo scritto autografo di Leopardi e arrivando a catalogare anche manoscritti conservati all’estero, come in Svizzera, a Cambridge e ad Harvard, solo per citare alcuni posti. In tutto ha visto circa 6000 pagine autografe di Leopardi, la maggior parte delle quali conservata a Firenze e Recanati, tra cui moltissime lettere. A farlo conoscere però anche “oltre-Manica” è stato il suo lavoro con il prestigioso ateneo britannico, avvenuto, causa pandemia, totalmente in “smartworking”. “I dottorandi hanno l’obbligo nel triennio di passare almeno 90 giorni in un centro di ricerca estero. Ho fatto domanda a maggio 2020 per andare a Cambridge perché sapevo che lì c’erano 41 manoscritti della famiglia Leopardi, di cui 38 di Giacomo. Ovviamente non potevo pensare di proporre un progetto che prevedesse di utilizzare tutti i 90 giorni su soli 41 manoscritti – racconta al Fatto.it il dottorando marchigiano – Quindi mi sono proposto per frequentare corsi al Cdh, il centro di digitalizzazione del prestigioso ateneo e, superando una piccola selezione, sono stato preso”. La pandemia, però, ha giocato un brutto scherzo, rimandando, ondata dopo ondata, il viaggio in Inghilterra. Così a giugno 2021, con il supporto dell’Università di Macerata e della professoressa che segue il progetto, Laura Melosi, Gioele ha chiesto di poter concludere il progetto in maniera virtuale. Le “foto”, in questo caso, sono state scattate da una mano diversa dalla sua, ma sono poi giunte a destinazione nelle Marche per essere analizzate in ogni minimo dettaglio. “Ne ho fatto una trascrizione digitale con metadata”, un lavoro meticoloso, “made in Italy” che ha permesso di arricchire anche la Digital Library dell’università inglese, oltre che il nascente progetto della Biblioteca digitale leopardiana.
“Senza pandemia avrei cercato di andare un po’ in tutti i luoghi di conservazione – dice con un po’ di rammarico il dottorando dell’Unimc – Alla fine sono stato ovunque in Italia, mentre all’estero sono andato solo in Svizzera. Anche volendo muoversi, comunque, ci sono enti che hanno riaperto da pochissimo, come la biblioteca di Harvard”. Così fondamentale, in questo immenso lavoro, è stato l’impegno anche delle istituzioni che hanno inviato a Marozzi le singole foto delle pagine, poi analizzate dallo studioso leopardiano. “Purtroppo” non tutti gli enti esteri hanno concesso la pubblicazione online dei manoscritti digitalizzati, lasciando però l’opportunità a Marozzi di catalogarli conservando le foto per il Centro di studi leopardiani.
Oggi, dopo tre anni di lavoro, Marozzi ha finito il dottorato. La speranza, ci dice al termine dell’intervista, è che il lavoro venga continuato e che, mano a mano che si trovano nuovi manoscritti, il catalogo “venga implementato con lo stesso metodo”. L’appello ora “parodicamente ma seriamente”, come si legge alla fine dell’articolo scientifico pubblicato da Laura Melosi e Gioele Marozzi, è a tutti i possessori pubblici e privati di manoscritti non ancora individuati dal lavoro meticoloso del dottorando: fatevi avanti.