L’ex premier e i suoi fedelissimi sostengono che l’indagine fiorentina sia una “barbarie”, un “abuso”. Non è così: agli indagati sono contestate ipotesi di reato circoscritte e specifiche: dai soldi usati usati dalla fondazione per pagare "beni e servizi" dell'ex premier e dei suoi fedelissimi, alla "promozione legislativa" a favore del gruppo Toto di Lotti e Bianchi, fino all'ementamento sul tabacco. E quando la fondazione fu chiusa, Boschi chiese di non citare Renzi: anche lei pensava che Open fosse un'articolazione di partito?
Bisognava evitare di “citare Matteo“. Quando il Giglio magico decide di chiudere Open, nel verbale di scioglimento della fondazione non bisognava nominare Matteo Renzi. A pensarla in questo modo era Maria Elena Boschi, membro del direttivo della fondazione finita al centro dell’inchiesta della procura di Firenze. Nata col nome di Big Bang nel 2012, in sei anni Open raccoglie oltre 6,7 milioni di euro. Poi, il 29 giugno del 2018 – a poche settimane dalla nascita del governo gialloverde – viene messa in liquidazione dai suoi stessi vertici. Quel giorno il presidente, Alberto Bianchi, invia ai componenti del consiglio direttivo, cioè Luca Lotti e Boschi, il testo del verbale della riunione che ha sancito lo scioglimento della fondazione. Perché Open viene chiusa? In quella bozza si legge: “Il presidente rileva che il quadro seguito all’esito del referendum del 4 dicembre 2016, alle dimissioni di Matteo Renzi dalla segreteria del Pd, alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, impone la presa d’atto dell’esaurimento delle finalità statutarie della Fondazione”. Un passaggio che a Boschi non piace. L’ex ministra risponde all’avvocato con queste parole: “Anche se è un atto ‘interno’ per prevenire possibili polemiche laddove un domani venisse fuori o ci fossero accertamenti vari e dovesse essere esibito, non conviene essere un pò più stringati sulle motivazioni dello scioglimento? Eviterei soprattutto di citare Matteo, se fosse possibile”. Una replica accolta da Bianchi, che corregge il verbale e lo gira ai due deputati. Nel passaggio contestato il nome di Renzi sparisce: “Il presidente rileva doversi prendere atto dell’esaurimento delle finalità statutarie della Fondazione“.
La questione del finanziamento illecito – Questo cambio nelle motivazioni ufficiali che hanno portato alla chiusura di Open sembra un particolare secondario nella storia della fondazione renziana. E invece ha primaria importanza per capire quali sono le accuse e i fatti contestati dal procuratore Luca Turco e dall’aggiunto Antonino Nastasi. Nelle ultime settimane Renzi e i suoi fedelissimi hanno cercato di bollare l’inchiesta come un “processo mediatico“, un “abuso” e una “barbarie“. Evitando di entrare nel merito delle contestazioni, l’ex premier ha attaccato alcuni quotidiani – a cominciare dal Fatto – che hanno pubblicato alcuni atti depositati dalla procura a disposizioni delle parti, quindi accessibili da settimane da parte degli avvocati degli indagati. Particolare clamore hanno sollevato gli articoli sulla cosiddetta “Bestia” del Giglio magico, cioè la stuttura social che – a leggere le informative della Guardia di Finanza – aveva il compito di fare propaganda per Renzi tra il 2016 e il 2018. Sorvolando su questioni di natura etico politica – l’utilizzo di software israeliani, l’uso di account fake, l’ormai nota bozza di piano inviata da Fabrizio Rondolino per attaccare avversari e giornalisti sul web – la vicenda del “gruppo social“ ha una rilevanza nell’indagine. La procura di Firenze vuole dimostrare che la fondazione si muoveva come un’articolazione del Partito democratico, segnatamente quella che faceva capo alla corrente renziana interna ai dem. Il fatto che Open finanziasse la “Bestia viola” è uno degli elementi che gli investigatori portano a sostegno di questa tesi. Se la fondazione si muoveva come articolazione di partito, infatti, deve rispettare gli stessi obblighi di trasparenza imposti ai partiti. È per questo motivo che gli inquirenti sono molto interessati a quella correzione nel verbale di scioglimento di Open: nella versione originaria Bianchi mette nero su bianco che dopo la sconfitta al referendum del 2016, le politiche del 2018 e le dimissioni di Renzi da segretario del Pd, la fondazione ha esaurito le sue finalità. Per lo stesso motivo la Guardia di Finanza pone pure l’accetto sulla fretta manifestata dallo stesso presidente nel gennaio del 2019, quando comunicherà a Boschi e Lotti la necessità di concludere la liquidazione di Open prima dell’entrata in vigore della legge Spazzacorrotti.
Il bancomat Open: beni per mezzo milione a Matteo – L’equiparazione della fondazione a un partito politico è alla base delle contestazioni di finanziamento illecito che la procura fa a Bianchi, Lotti, Boschi e Marco Carrai, in quanto componenti del consiglio direttivo di Open, fondazione che considera “riferibile a Renzi (e da lui diretta)”. Pure l’ex premier è indagato per questo reato. Sotto accusa ci sono 3.567.562 euro donati dai finanziatori a Open e usati per sostenere l’attività politica dell’ex premier, della sua ex ministra delle Riforme e dell’ex sottosegretario alla presidente del consiglio tra il 2014 e il 2018. Renzi, Lotti e Boschi sono accusati di aver ricevuto contributi in forma diretta, che consistevano in benefit erogati dalla stessa Open, ma pagati con finanziamenti che per la procura violano la legge. Secondo le informative agli atti dell’inchiesta, Renzi ha usufruito di “beni e servizi” del valore di 548.990 euro, pagati dalla fondazione tra il 2012 e il 2018: mezzo milione in sei anni e mezzo. Nell’elenco delle spese c’è di tutto: biglietti aerei, del treno, cellulari, ipad, abbonamenti telefonici, pranzi e “spuntini”, persino 7,5 euro di rimborso, motivati in nota spese nel gennaio del 2014 con “Auguri Natale Quirinale“. Molto inferiori le cifre usate da Open per Lotti e Boschi: quasi 27mila euro per il primo, 5.900 per la seconda.
Il caso del tabacco: l’ementamento è “morto” – Nell’inchiesta, però, c’è anche altro. Ci sono, per esempio, alcune accuse di corruzione che la procura rivolge a Lotti, Bianchi e a Giovanni Caucci e Gianluca Ansalone, questi ultimi due manager della British American Tobacco. La storia è quella “dell’emendamento morto“, per usare la frase dello stesso Lotti. La norma in questione era stata depositataalla legge di bilancio del 2017 e impegnava il governo ad aumentare le accise sul tabacco. L’emendamento saltò all’ultimo. Secondo la procura, in cambio Bat ha donato a Open poco più di 253mila euro in totale negli anni 2014, 2015 e 2017. Ma ha anche affidato due incarichi di consulenza da 83mila euro a Bianchi. Quella fattura, però, per la procura è falsa come fittizia è – secondo l’accusa – la prestazione professionale dell’avvocato, che versò poi il ricavato, al netto delle imposte, alla fondazione. Bat ha anche nominato nel suo collegio sindacale Lorenzo Anichini, già tesoriere del Comitato Basta un Sì.
La “promozione legislativa” per il gruppo Toto – Un’altra accusa di corruzione riguarda la questione della Toto costruzioni generali. In pratica, i pm contestano a Lotti di essersi “ripetutamente adoperato, nel periodo temporale 2014 – giugno 2018, affinchè venissero approvate dal Parlamento disposizioni normative favorevoli al gruppo Toto”, titolare di concessioni autostradali. Agli atti ci sono tutta una serie di chat – tra Lotti e Bianchi e tra quest’ultimo e Alfonso Toto, ceo dell’omonimo gruppo – che secondo gli investigatori rappresentano “un chiaro collegamento tra l’attività di ‘promozione legislativa‘, di cui Lotti è stato il terminale ultimo, e le richieste avanzate da Toto “. L’imprenditore parlava col presidente di Open, che discuteva con l’allora ministro del governo di Paolo Gentiloni. Il 26 maggio del 2017 Bianchi scrive a Lotti: “Mi dicono – scrive- che avanzano qualche critica dal Mef sul numero di rate, purtroppo investimento non comprimibile, occorrono tutte e 4″. Il 27 novembre Lotti invia una bozza di emendamento che rimodula il contributo per interventi di ripristino e messa in sicurezza sulla tratta autostradale A24 e A25, gestite da Strada dei parchi, di proprietà del gruppo. Ma a Bianchi non va bene: “No buono. Non tiene conto della versione Mitdi ieri, che andava bene con un aggiunta. Ti giro per mail su matteorenzi il testo giusto, la prima Parte è tutta Mit la seconda serve per consentire disponibilità immediata somma, altrimenti devono sospendere i lavori”. Lotti ci riprova il 5 dicembre, ma arriva un nuovo pollice verso dall’avvocato: “Questa non passa, Luca. Mef contrario. La prima parte passa, la seconda no. Lo spiegherò a T“. Chi è T? Forse Toto? In questa fase l’obiettivo di Bianchi è raddoppiare i 50 milioni della messa in sicurezza e anticiparli: non dal 2021 ma dal 2017. Come è andata a finire? “Il testo finale approvato non accoglie tutte le modifiche auspicate, ma consente un’autorizzazione di spesa che rimodula quanto stabilito”, scrive la Finanza. Quindi 58 milioni nel 2018, 50 nel 2021 e 8 milioni nel 2022.
La lettera di Bianchi a Lotti: “Ho dato i soldi a Open” – In cambio di questa “promozione legislativa”, il gruppo Toto ha versato a Bianchi 801.600 euro a fronte di una “prestazione professionale fittizia“. Denaro poi in parte girato da Bianchi alla fondazione Open e al Comitato che sosteneva il Sì al referendum costituzionale del 2016. È un caso che Toto avesse ingaggiato il presidente della Open come consulente legale e che quest’ultimo si sia mosso su Lotti per spingere norme favorevoli al suo cliente? Per gli inquirenti no. E per dimostrarlo allegano alle carte anche un appunto, sequestrato a Bianchi e indirizzato allo stesso Lotti:”Luca, sulla base dell’accordo con Toto, ho avuto 750k. Sulla base dell’accordo con British American Tobacco, riceverò a breve 80k. In conclusione, ricevo/ricevero 830k. Ho chiesto a suo tempo al commercialista qual era il netto di questo importo, in modo da versare quello a Open/Comit Sì (il resto sono tasse, che verso invece io allo Stato). Come risulta dall’all. 1, il commercialista mi ha detto che il netto di 830k è pari a euro 400.838,00. Ho dunque provveduto a versare per intero detta somma (come risulta dagli all. 2 e 3) in parte (200k) al Comitato nazionale per il Sì, in parte (200.838,00 euro) alla Fondazione Open“.