Cultura

‘La regina di Kabul’, il libro di Vauro che racconta 20 anni di guerra in Afghanistan attraverso le storie di Emergency

Esce il 17 novembre in tutte le librerie e gli store online ‘La regina di Kabul. Storie dall’Afghanistan di Emergency’ (Libreria Pienogiorno). Un volume firmato da Vauro Senesi, che della ong è stato anche portavoce dal 2006 al 2009, e che attraversa tramite le storie delle vittime oltre 20 anni di guerra nel Paese, dal 1999, quando Gino Strada decise di mettere l’esperienza e le risorse della sua organizzazione al servizio della popolazione martoriata dal conflitto. Oggi, dopo il ritiro Nato dal Paese e a tre mesi dalla morte del fondatore della ong, Ilfattoquotidiano.it pubblica in anteprima una breve anticipazione firmata da Cecilia Strada.

Il mio personale album di fotografie dall’Afghanistan ha l’odore della polvere e un gusto di more da gelso, lasciate seccare sul tetto di una casa di fango alla fine dell’estate. A volte dall’album escono fuori vecchie carte di imbarco, una cassetta degli Eagles che finiva sempre nell’autoradio attraversando la piana di Shomali, mandorle e uvette. Se non sto attenta cascano giù decine di veli, regali di decine di donne, il suono sordo e lungo di un’esplosione lontana, quello secco e breve di un fucile più vicino, un pesce fatto di cannule per la flebo. C’è la foto di una cartella clinica; carta bianca, inchiostro nero. Sul foglio di ammissione in pronto soccorso c’è la sagoma di un corpo per segnare con una crocetta i punti delle ferite. Questa particolare cartella è quella di un “Maschio, 7 anni” e sulla sagoma ci sono più croci che aria. “Schegge”. È quello fa un’esplosione a chi è abbastanza lontano da sopravvivere, non abbastanza lontano da uscirne com’era prima. C’è la foto di un’officina di falegnameria che continua a far stampelle e nuovi letti per ingrandire le corsie; accanto, c’è la foto di una lavanderia che ogni mese lava migliaia di lenzuola e di pigiami – taglia uomo, donna e bambino – e che ogni mese ne deve lavare di più. C’è la foto di uno che salda una scatola di ferro in un’ambulanza per metterci dentro una bombola di ossigeno; una voce sopra la foto dice: “Se finiamo in un grande casino non cambia niente. Ma magari se finiamo in mezzo a una linea di tiro ci possiamo risparmiare che un unico proiettile vagante prenda proprio la bombola e ci faccia saltare per aria… l’idea è un po’ questa”.

Se vuoi sapere come sta andando una guerra, chiedi al reparto manutenzione dell’ospedale. Ci sono le foto dei ponti sbilenchi che ho attraversato nelle vallette secondarie e sperdute del Panshir, pensando: “Beh, non reggerà. Però ne valeva la pena, per essere qui con loro”. Loro, le donne e gli uomini afghani. Loro che ti chiedi come facciano ad essere ancora vivi dopo secoli passati a fare i pezzi sacrificabili sulla scacchiera del Grande Gioco. Loro che magari oggi c’è poco o niente da mettere nel piatto, però la metà di quel poco sarà tua: accomodati. Loro che poi il ponte regge sempre, in qualche modo. Soprattutto quelli costruiti con i pezzi dei carri armati sovietici, sventrati e trasformati. Se la valle ne è piena, almeno che servano a qualcosa. E se poi arrivi in mezzo a una valle e il ponte che ti aspettavi di trovare è crollato ieri mangiato dall’acqua, beh, che fai? Io dicevo: “Torniamo indietro?”. Loro si accucciavano un attimo a guardarlo: “No, aspetta. Non c’è problema. Lo ricostruiamo”. Loro, che si meriterebbero un po’ di pace. Nell’album c’è un ritaglio di giornale con un disegno di Vauro. C’è un bambino in mezzo alle macerie, una gamba in meno, due stampelle in più, al posto della testa una linea tratteggiata, e il titolo del disegno è “Istruzioni per capire cos’è la guerra. Seguite la linea tratteggiate e applicate la foto di vostro figlio”. Già, proprio così. Quel disegno l’ho citato mille volte, raccontando l’Afghanistan. Oggi lo cito anche come manuale per capire una migrazione disperata, quella che ti fa finire con il ciuccio in bocca, su un gommone sgonfio, in mezzo al Mediterraneo. Ma questa è un’altra storia.

Dall’album di foto, se non ci sto attenta, cascano fuori tutte le risate che ho fatto con le donne e gli uomini afghani “perché ridiamo, che altro possiamo fare?”. A volte, come oggi, casca fuori un sacco di rabbia e insofferenza e nostalgia. Il nome della rabbia è: “Ma la smetterete mai, tutti quanti, di distruggere questo Paese e chi ci vive?”. L’insofferenza si chiama: “E voialtri che vi commuovete solo oggi, dove eravate negli ultimi vent’anni, mentre lì si contavano i morti e i feriti e ogni mese se ne contavano di più?”. La nostalgia è piena di polvere e ha un gusto di more.