Cinque anni fa moriva il Premio Nobel Milton Friedman. Non parlerò tanto della vita di questo grande economista americano che ha avuto una influenza così profonda sulle sorti del mondo negli ultimi 40-50 anni, ma proprio di questa influenza, che, per una serie di motivi, mi sembra si stia gradualmente superando.
Con la sua morte, sembra finire un’era, quella del turbo-liberismo monetarista di cui è stato uno dei massimi esponenti dal punto di vista accademico e senz’altro il massimo esponente anche nell’opinione pubblica. I suoi libri e scritti hanno dapprima “demolito” alcune delle credenze keynesiane ortodosse e poi hanno sviluppato un’alternativa, quella della cosiddetta Nuova Macroeconomia Classica, che facevano risorgere tutti i vecchi credo della teoria neoclassica e soprattutto della sua politica economica liberista. Si trattava di un mondo che con l’avvento del Keynesismo sembrava essere scomparso per sempre, ma che Friedman aveva fatto risorgere con le sue ricette liberiste e l’idea dello Stato minimo. Per Fiedman, l’economia funziona meglio senza intervento dello Stato in tutti i campi, da quelli microeconomici dei singoli mercati a quello macroeconomico.
La stagflazione è stato un turning point nella storia del pensiero economico e della politica economica contemporanea. Friedman e Edmund Phelps, docente anche presso l’università di Roma Tor Vergata da diversi anni, ebbero gioco facile a dare la colpa della stagflazione alle politiche keynesiane che avrebbero trasformato le fiammate inflazionistiche legate all’aumento del prezzo del petrolio di quegli anni in un’inflazione persistente, alimentando le aspettative degli operatori al rialzo dei prezzi. Così le politiche keynesiane anziché ridurre la disoccupazione, provocavano inflazione e Friedman diceva: vedete che bisogna spendere meno denaro pubblico?
Da allora, è stato un crescendo di influenze nefaste del laisser faire laisser passer di fisiocratica memoria sull’economia mondiale. Il mantra del markets always clear diviene una sorta di dogma negli Stati Uniti prima ed in Germania poi, informando la politica economica delle principali aree economiche del mondo per un periodo lunghissimo di tempo.
Bisognava arrivare alla crisi economico-finanziaria del 2007 e degli anni seguenti per avere un nuovo giro di boa. Come tutte le crisi, anche questa, che secondo il Premio Nobel Paul Krugman è stata più lunga della crisi di Wall Street, il pensiero liberale subisce gravi colpi. La disoccupazione montante, la riduzione dei salari e i working poor diventano altrettanti evidenti segnali che lasciar fare al mercato non è la strada migliore.
In questa presa di consapevolezza, però, gli Stati Uniti sono favoriti dall’alternanza politica fra democratici e repubblicani. L’elezione di Barak Obama come Presidente degli Stati Uniti nel 2009 segna quell’auspicata svolta keynesiana di cui il mondo aveva bisogno, in barba al credo friedmaniano. Obama, infatti, nomina Janet Yellen, economista keynesiana, a capo della FED, la banca centrale americana, e la Yellen garantisce una politica espansiva che porta in pochi anni alla creazione di circa 10 milioni di nuovi posti di lavoro.
L’eredità di Friedman è stata in questi ultimi 15 anni più forte nell’Unione Europea che negli Stati Uniti. Anche la parentesi della Presidenza di Donald Trump ha solo rallentato l’uscita dall’ultraliberismo degli anni pre-crisi. Con Biden, la Yellen torna in sella come ministro del Tesoro del neo-Presidente Joe Biden e c’è da aspettarsi che continuerà il lavoro svolto in precedenza a capo della FED da cui l’aveva rimossa Trump.
Dicevo che l’eredità monetarista ha accompagnato piuttosto l’Unione Europea, informando di sé, come una sorta di peccato originario, il Trattato di Maastricht. Quest’ultimo è un manifesto monetarista, con i suoi target irraggiungibili ed innaturali su deficit, debito e quant’altro e la sua idea di fondo – che rasenta la follia – secondo la quale la crescita economica sia figlia della stabilità finanziaria dei paesi. Il seguente semestre europeo e la dittatura del target del 3% sul deficit pubblico, portato poi paradossalmente proprio nel pieno della crisi, nel 2011, all’1.5% o addirittura al pareggio di bilancio permanente è un altro portato assurdo della filosofia monetarista di Friedman. Il Presidente Mario Monti lo fa scrivere addirittura nella Costituzione nel 2011 che il bilancio pubblico deve essere sempre in pareggio, indipendentemente dal fatto se si è in una fase di crisi o di espansione economica.
In realtà, questo approccio europeo porta la crisi economica a durare per oltre 10 anni nei paesi più deboli del continente, fra cui l’Italia, e a nulla servono le grida di dolore dell’economia italiana, dei governanti e degli economisti dei paesi Mediterranei a dire che questo approccio sta uccidendo l’economia europea, oltre che facendo rinascere nazionalismi e fascismi in tutta Europa.
Occorre attendere la pandemia perché anche Angela Merkel, sacerdotessa del monetarismo in campo economico, si renda conto che è un approccio sbagliato, soprattutto nelle fasi di crisi. Il Recovery Fund, la risposta europea alla crisi da Covid-19, segna probabilmente il superamento del monetarismo anche in Europa, mentre tutte le economie mondiali lo avevano già superato nel corso della crisi passata.
Sarà un caso che tutto ciò accade a qualche anno dalla morte di Milton Friedman, ma è un fatto che l’era di Friedman sembra felicemente conclusa. Ormai al semestre europeo si è sostituito un altro rituale, quello del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che segue un approccio completamente diverso di investimenti pubblici per la crescita. Cosa più importante, il Pnrr rappresenta il primo nocciolo di un debito pubblico europeo che dovrebbe contribuire a formare una base espansiva di lungo periodo per il continente europeo.