Come scrivono brillantemente nel lancio dalla Cineteca (15, 16, 17 novembre): “Ogni logica narrativa sembra cancellarsi nel cinema del regista di Eraserhead e Velluto blu, scivolando lungo il crinale tra reale e onirico, tra noir e mélo, in un labirinto ipnotico e avvolgente che fa dell’enigmaticità il proprio fondamento”
No hay banda. È tutto registrato. È solo un’illusione. David Lynch più che un maestro di cinema è un incantatore di serpenti. Pensa di girare una serie (sic!) e si ritrova a farne un film. Trasforma la programmata diramazione della serialità in un unico blocco narrativo con suddivisione in due parti speculari. Freud, l’Es, l’Io e il Super-io, Hollywood e le sue perenni macerie umane, morali e sentimentali, il gioco antico delle dissolvenze e delle parrucche delle protagoniste che cambiano colore e senso del racconto. Mulholland Drive torna dopo 20 anni restaurato in 4k dal produttore di allora, StudioCanal, e si fa una tre giorni in sala (15-16-17 novembre 2021) grazie alla Cineteca di Bologna, chissà se per racimolare quegli incassi che mai arrivarono con l’uscita di allora nel 2001 (7 milioni di dollari negli Stati Uniti, 13 nel resto del mondo tra gli osanna dei critici europei ma pochissmi biglietti strappati) dopo la passerella e il premio al Festival di Cannes. Come scrivono brillantemente nel lancio dalla Cineteca: “Ogni logica narrativa sembra cancellarsi nel cinema del regista di Eraserhead e Velluto blu, scivolando lungo il crinale tra reale e onirico, tra noir e mélo, in un labirinto ipnotico e avvolgente che fa dell’enigmaticità il proprio fondamento”.
Già perché quel culto che Lynch è riuscito a creare attorno a sé rimane legato all’interpretazione libera, al cinema che non si spiega ma lascia leggersi, ad un’apparente anarchia spettatoriale (anche se i precisini che si sprecano mostrando improbabili conoscenze di psicanalisi fanno parecchio sorridere) che invece è totale libertarismo creativo. Una donna dai capelli scuri, Rita (Laura Harring), soffre di amnesia dopo un incidente d’auto e vaga stordita su Mulholland Drive giù per le colline di Los Angeles prima di rifugiarsi in un appartamento dove è appena giunta Betty (Naomi Watts), biondina del Midwest arrivata sorridente e decisa in città in cerca di fama d’attrice di cinema. Insieme le due ragazze tentano di risolvere il mistero della vera identità di Rita incrociando le vicende di un regista (Justin Theroux) a cui viene imposta da due tizi piuttosto mafiosi un’attrice per il ruolo principale nel suo nuovo film. Sarà l’apparizione di una chiave e di un cubo blu, grazie alla visita di Rita e Betty al Club Silencio, a ribaltare le certezze della prima ora e 45 di film con Betty che si trasforma nella disperata, sciatta, vendicativa Diane e Rita nella altisonante, fascinosa, realizzata star Camilla. Non mancano due scene di sesso lesbico in cui le protagoniste non fanno difetto in generosità, e soprattutto ci sono tutti i classici segni del cinema surreale, grottesco, finanche farsesco di Lynch, a partire dalla coppia di vecchietti ridente e plastificata che riappare in forma onirica di puffi a fine film, il solito nano lynchiano (Michael J. Anderson) qui con protesi oblunghe e la doppia apparizione che sconfina nel kitsch del cowboy. Mulholland drive, come sottolinea Mereghetti nel suo dizionario – per una volta siamo d’accordo – riesce a stupire pur nell’aleatoria indeterminatezza formale, e ad essere “sconcertante eppure sempre coinvolgente pure quando sfiora la fumisteria”.