"Se uno dei miei figli volesse fare il marciatore? Sarei contento se fanno sport perché lo sport ti forma. Dalla marcia io ho avuto soddisfazioni enormi. Sia chiaro: mica sono una vittima dello sport”, così lo sportivo in una lunga intervista tra sport e vita privata
O lo chiami prima delle otto del mattino o dopo le quattro del pomeriggio. Perché Alex Schwazer sta allenando. Trentasette anni a dicembre. Due bambini a saltellargli sui piedi in salotto. Immerso e nascosto nella Val di Giovo altoatesina assieme all’amata Kathrin. Un oro olimpico nella 50 chilometri di marcia a Pechino nel 2008 che ancora luccica. Prima condanna per doping con relativa eclatante storica confessione in pubblico. Seconda (strana) condanna che pochi mesi fa è stata archiviata dalla giustizia ordinaria ma che gli vale ancora una sospensione in ambito sportivo, Schwazer segue ogni giorno gli sforzi di quei podisti amatoriali che vogliono provare ad andare spediti come treni proprio come faceva lui. “È il quinto anno che alleno. Tra gli amatori ci sono anche dei 60enni e sono proprio le persone mature la categoria con cui riesco a fare di più”, spiega Schwazer al FQMagazine nel presentare la sua autobiografia Dopo il traguardo (Feltrinelli). “Non mi reputo un allenatore, ma un ex atleta che ha una certa esperienza. Con le persone che alleno cerco sempre di mostrare un lato umano. Sono appassionati di sport che hanno una famiglia e un lavoro. Spesso è gente che lavora otto ore in fabbrica poi va ad allenarsi così non puoi chiedergli un allenamento che chiedi a un professionista. E io non uso tabelle perché gli umani non sono macchine”.
A nemmeno 40 anni è già giunto il momento per scrivere la propria biografia?
“Mica dovevo attendere di compiere 70 anni (ride ndr). Sono arrivato a un punto dove posso raccontare qualcosa della mia vita tra cose molto belle e molto brutte che però vale la pena raccontare. In questo libro c’è la prima parte della mia vita poi quello che verrà, verrà. Tra l’altro è un progetto che avevo iniziato nel 2013 nei momenti difficili vissuti dopo la squalifica per doping”.
Sfogliando il libro, gara dopo gara, fa impressione l’episodio dei 40 battiti al minuto dopo una 20 km di marcia…
“L’aneddoto ha un retroscena. Fu durante i mondiali del 2007 in Giappone. Come clima fu la gara più difficile in assoluto. Io vado bene col caldo, ma lì c’era un’afa impressionante che non ci permetteva di allenarci. Decisi di fare anche la 20 km per fare un po’ di ritmo. E solo dopo questa gara, quindi dopo uno sforzo molto violento, ho ritrovato una buona sensazione che non provavo da tempo. Di botto dopo un paio d’ore le pulsazioni calarono. Di fianco a me c’era la giornalista Emanuela Audisio che vi invitata dal mio allenatore a verificare. Quando ero molto in forma dalla frequenza massima sui 185 battiti in un minuto arrivavo sui 70”.
Da ragazzino hai provato tutti gli sport poi è arrivata la marcia…
“Ci sono stati due step nella mia vita di atleta. Il primo è quando scelsi tra hockey e atletica, poi a 16 anni se fare corsa o fare marcia. In quell’anno sono cresciuto molto in altezza quasi fino a quella attuale. Pensai di essere troppo alto e quindi troppo pesante per la corsa. Ricordo che vedevo sempre degli atleti keniani correre in alcune gare a Vipiteno. Erano così leggeri. Mi rimase impresso. Pesavo 65 kg ed ero alto 1,83. Puoi avere il motore che vuoi ma non puoi correre contro gente chi pesa 50 o 55 chili. Per questo scelsi la marcia. Più che il divertimento l’obiettivo era sempre stato per me diventare professionista”.
Leggevi la Gazzetta dello sport mentre eri a scuola…
“Facevo il liceo sportivo. Eravamo una classe di pazzi. Facevo gruppo con gli sciatori. Entravano quando volevano, anche alle 10 e alle 11, perché la mattina facevano allenamento. Non avevano molta voglia di seguire la lezione, controllavano gli sci e la sciolina”.
C’è una grande cultura dello sport olimpico in Alto Adige…
“Forse perché la cultura del calcio è scarsissima. Mio zio fece due Olimpiadi invernali. Era il mio idolo. Quando nei primi novanta finì la carriera anche i suoi avversari le vennero a trovare nella sua bottega da calzolaio dove lavorava, come mio nonno. Quando questi arrivavano io ero talmente emozionato che mi nascondevo. Non ti dico quando arrivo la prima altoatesina ad aver vinto una medaglia d’oro, Erika Lechner. Avevo le farfalle nello stomaco. Mi avessero messo davanti un premio Nobel della Letteratura non sarebbe successo niente. Invece una medaglia d’oro olimpica…”
Per marciare meglio ti costruivi le scarpe da solo.
“Quando ero ragazzo non si trovavano scarpe da marcia, cioè con il tacco molto basso. Compravo scarpe da ginnastica normali, poi toglievo un po’ di tacco, infine le risuolavo. Qui nessun faceva marcia, dovevi arrangiarti un po’. I modelli su come dovevano essere le scarpe le vedevo in televisione”.
Hai scritto nel libro: “La grande soddisfazione di sentirsi esausti”.
“Se ti alleni due volte al giorno ad alto livello quando non senti la stanchezza ti manca. È una fatica da allenamento, e l’allenamento è intimo. Quando ne fai uno tosto e lo finisci, hai più bei ricordi in quei momenti lì rispetto a quando vinci alle Olimpiadi. Lì subito dopo c’è un tale ambaradan attorno che non ci pensi più. Quando invece sei solo, fai una cosa difficile e nessuno la vede, godi. Ci si accontenta con poco, no?”.
Qual è stato il più grande marciatore della storia?
“L’ecuadoregno Jefferson Perez. Ha sempre marciato in maniera superba”.
È quello che ti chiamò ad allenarti in Sud America e poi ti diede buca?
“Non fu colpa sua. La trasferta fu organizzata malissimo dall’Italia. Lo incontrai da giovanissimo in 2005. Fui l’unico a vincere una medaglia a quei mondiali. Noi eravamo insieme all’Ecuador. Vidi che c’era lui. Un idolo. Arrivai terzo alla 50km arrivai terzo e venne lui da me. Lo bombardai di richieste tecniche allora lui mi fa: vieni da me ad allenarti. Poi l’organizzazione dell’incontro da parte italiana fu catastrofica. Lui comunque si scusò in mille modi”.
Agosto 2008. Olimpiadi di Pechino. L’oro sui 50 km. C’è stato un momento durante la gara in cui hai pensato di non farcela?
“A livello cardiorespiratorio in quei due anni mi sentivo molto forte, ma alle Olimpiadi ci fu un problema. Arrivammo a Pechino dieci giorni prima e la ciclabile dove ci allenavamo era di cemento, quindi più dura dell’asfalto. Ebbi una forte infiammazione su entrambi i tibiali. Non lo dissi a nessuno. Solo quelli che si cagano addosso cercano scuse prima della gara. Verso metà gara però avevo qualche pensiero di fermarmi. Poi mi sono posto dei mini obiettivi e mi sono salvato”.
All’arrivo per festeggiare la vittoria sventolasti la bandiera italiana e gli schutzen altoatesini si arrabbiarono…
“Noi siamo orgogliosi di essere altoatesini ma ci sentiamo italiani. Quando andavo ai raduni nazionali da ragazzino mi trovavo benissimo con i ragazzi del Sud. Erano molto orgogliosi della propria regione. Tu di quale regione sei?”
Sono emiliano…
“Ecco, allora se ti dico che sei romagnolo bonariamente ti arrabbi, no? Capisci quello che voglio dire? Da altoatesino poi mi spostai in Piemonte a Saluzzo dove la federazione allenava gli atleti e lì imparai a marciare. Per questo mi sento italiano”.
L’ex premier Berlusconi ricevette i vincitori delle medaglie d’oro olimpiche a Palazzo Grazioli. Hai scritto nel libro che vi raccontò le solite barzellette.
“Improvvisò tutto l’incontro. Ricordo che disse ‘io quello che ho premesso agli elettori l’ho anche mantenuto’. La prima, disse, ho mandato a casa Prodi. La seconda ora non me la ricordo io, ma era sempre una battuta. La terza, disse, ho promesso che avrei comprato Ronaldinho e ho comprato Ronaldinho. Simpatico sì, ma dico sei lì, hai tutti i medaglisti olimpici che si sono fatti un mazzo così, un minimo di preparazione, dai”.
Tu come Silvio sei un discreto re di cuori.
“Fino a una certa età mi era facile avere un rapporto con le ragazze che mi piacevano. Poi quando iniziai a innamorarmi le relazioni che ho avuto sono state tutte molto serie. In quegli anni pensavo molto da atleta, che è un pensiero sbagliato. Tanti atleti che la compagna disturba perché ti devi solo allenare, mangiare, dormire. È un modo molto vecchio. La vita non è così. Nel 2008 mai avrei pensato di innamorarmi prima delle Olimpiadi. Ma anche nel 2015 prima di Rio ho conosciuto la mia attuale moglie”.
Con Carolina Kostner non vi sentite più?
“No perché è stato un distacco molto doloroso. Magari un giorno ci rivedremo ma non è ancora arrivato il momento giusto”.
Dopo l’Oro ti cercavano tutti. La tv ti offrì ruoli in reality di prima serata?
“Sì, diverse, ma non ho mai seguito i reality. Qui in casa con i bimbi guardiamo documentari. Non ho problemi ad andare in tv, ma se ci devo andare deve avere un senso. Quest’anno ho accettato di partecipare a Pechino Express. Ma lo reputo formativo per chi lo guarda e chi partecipa. Chiuso in una casa a litigare con altri però non lo faccio”.
Dopo l’oro ecco il doping. Hai scritto: “in quel momento il seme della follia ha attecchito definitivamente nella mia testa”, cosa significa?
“Tutti i ragionamenti logici e i tuoi riferimenti improvvisamente non ci sono più. Quando ho deciso di doparmi nel 2012 avrei fatto la firma per arrivare quinto alle Olimpiadi da dopato, anziché vincerle senza doping come quattro anni prima. Ero convinto che gli avversari più forti si dopavano e chi io ero stato preso per il culo. Non pensavo più agli allenamenti ma solo a doparmi. In gara non pensavo più a me, ma a cosa facevano gli altri”.
Parli anche di una seria depressione vissuta in quei mesi…
“Nel momento post Pechino sono stato sempre alla ricerca delle sensazioni che non sentivo più. Cambiai allenatore, posti in cui mi allenavo, ma non ero mai soddisfatto di quello che facevo. Se a Pechino avessi avuto 33 anni e non 23 mi sarei preso una pausa e avrei cercato di capirmi meglio. È sempre stata una fuga per cercare sensazioni che non trovavo più”.
Poi ci fu la confessione in diretta nazionale: mi sono dopato…
“Non vedevo l’ora di chiudere questo capitolo, ma tanti nell’ambiente mi dissero: se vuoi avere un futuro nello sport non dire niente. Tutti gli atleti che confessano quando, e se, tornano si trovano in difficoltà. Confessare vuol dire far capire che il doping esiste, quindi non è solo una fetta di atleti che si dopa, ma di un sistema che funziona (o non funziona) e le istituzioni queste cose non le vedono ben volentieri”.
Mentre ti iniettavi dosi di epo in quanti si dopavano nel mondo della marcia?
“I russi tutti. Era sistematico. Il resto in pochi. Ma quella sistematizzazione dei russi mi ha ucciso. Quando sai per certo che quelli si dopavano per mesi, mi chiedevo: chissà chi li controlla”.
Saltiamo al 2016. Provi a ripartire con un nuovo allenatore. Ti alleni, lui ti controlla a sorpresa e sei sempre pulito. In una gara a Roma sei davanti a tutti, ma un giudice dice al tuo allenatore che bisogna far vincere un altro atleta: esiste questo tipo di pressione dall’alto?
“Questa cosa venne riferita a Sandro, il mio allenatore. Lui non me la disse. Sapeva che non avrei fatto vincere nessuno. Li ci fu una grossa pressione dall’alto. Perfino in tv si inquadrava sempre il secondo, quando io ero in testa. Quando partimmo misero davanti gli atleti più forti e vincenti. Io non c’ero. Poi hanno chiesto alle nazioni con gli atleti più forti di mettersi davanti e io non c’ero. Partii in fondo al gruppo con gli atleti delle Maldive. Anche lo speaker della gara quando poté non mi citò”.
Finito nella colonna dei cattivi non si passa più in quella dei buoni?
“Impossibile. Puoi fare tutto quello che vuoi, ma è durissima”
In quegli anni di limbo c’è stato qualcuno dell’ambiente che ti è stato vicino?
“No”.
Colpo di scena: due metaboliti di testosterone nelle urine. Nuova squalifica nel 2016, ma tu hai sempre sostenuto che ci fosse una manipolazione delle provette. Versione che il tribunale di Bolzano ha recentemente confermato con l’archiviazione.
“Ho perso molto con il doping. A livello sportivo e personale sono ripartito da zero. Non ero un giovanotto che non sa usare la testa. Andavo talmente forte, come in quella gara a Roma che abbiamo citato, che era difficile fermarmi. Fossi andato a tutta avrei fatto tempi record. La domanda è: ma con tutto quello che ho sofferto con il doping mi rimetto a fare la stessa cosa? Piuttosto di rimettermi in una situazione del genere faccio altro nella vita. Perché sono andato avanti per anni per ottenere giustizia su questa seconda squalifica? Non posso accettare una positività che non esiste. E devo dare il massimo per combattere. Non ho mai lottato come negli ultimi 5 anni”.
Nel momento della seconda positività, quella delle provette manipolate, ti sei mai sentito come Pantani a Madonna di Campiglio?
“No. C’è una differenza fondamentale tra me e lui. Pantani non ebbe la fortuna di avere una famiglia attorno a sé. Non parlo dei genitori, perché a 34 anni i riferimenti affettivi sono altri. Pochi mesi dopo mia moglie mi disse di essere incinta. Io lì mi sono salvato. Pantani non vivendo qualcosa del genere si lasciò andare. Se ti vedi solo come sportivo non ne esci. Devi trovare nuove motivazioni nel tuo privato”.
Alla fine del libro scrivi che non ti poni nuovi traguardi. Quindi niente Olimpiadi nel 2024?
“Per ora no. Nella mia carriera sportiva ho avuto alti molto alti e bassi molto bassi. Io sono uno d’istinto. Do sempre il massimo, non mi accontento. Se sento qualcosa mi butto. Nei prossimi 30 anni non posso dire che succederà”.
Se uno dei tuoi figli ti dicesse voglio fare il marciatore che gli rispondi?
“Sarei contento se fanno sport perché lo sport ti forma. Dalla marcia io ho avuto soddisfazioni enormi. Sia chiaro: mica sono una vittima dello sport”.