Il paese ha registrato un forte afflusso di "minatori" dopo che la Cina ha vietato le attività per la produzione di valute digitali. Per ottenerle servono schiere di computer collegati in serie che consumano grandi quantità di energia (fattore che inizia a destare preoccupazioni anche in chiave ambientale). Il Kazakistan, paese ricco di idrocarburi, potrebbe essere costretto a importare energia per fronteggiare il picco del fabbisogno
Le criptovalute potrebbero arrivare in futuro a giocare un ruolo finanziario più importante di quello prevalentemente speculativo che hanno rivestito sinora. Il loro impatto su alcuni paesi del mondo è però già ben presente. E non si tratta solo di El Salvador che poche settimane fa è stato il primo paese ad accettare come valuta legale il Bitcoin. La questione, oltre che finanziaria, è energetica: un paese ricchissimo di idrocarburi come il Kazakistan, ad esempio, potrebbe essere costretto ad iniziare a importare elettricità dalla Russia. Il consumo interno è infatti cresciuto dell’8% dall’inizio del 2021, a fronte di aumenti medi annui che di solito si aggirano intorno al 2%. La ragione di questo picco è presto spiegata.
Da quando la Cina ha deciso, l’estate scorsa, di mettere al bando l’attività di “mining” delle criptovalute – ossia quell’insieme delle complesse procedure tecnologiche per creare le varie monete digitali, che richiedono ingentissime quantità di elettricità – perché troppo dispendiose in termini energetici, il numero di mining farm presenti in Kazakistan è cresciuto esponenzialmente. L’esodo verso il territorio kazaco di queste strutture di elaborazione dati, molte delle quali illegali, è legato ad alcune caratteristiche peculiari del paese centro asiatico.
Prima di tutto, il bassissimo costo dell’energia elettrica, che rende particolarmente conveniente operare in Kazakistan: come termine di paragone, a dicembre 2019 era pari a 0,041 dollari per kilowattora (Kw) per il consumo domestico e a 0,049 per le attività produttive, contro, ad esempio, un prezzo medio negli Stati Uniti pari a 0,14 dollari per Kw, quasi il triplo. In secondo luogo, il clima freddo di buona parte dell’immenso territorio kazaco consente alle mining farm di operare senza rischi di surriscaldamento degli impianti e/o riducendo i consumi per la refrigerazione. Infine, non certo meno importante, le autorità del paese hanno finora tenuto un atteggiamento non ostile nei confronti del settore delle criptovalute, approccio che potrebbe però modificarsi alla luce della crisi attuale.
Per il governo di Nur-Sultan rappresenta una magra consolazione il fatto che il Kazakistan negli ultimi mesi abbia scalato la classifica globale dei paesi con il più alto hash rate mensile (ossia la potenza di elaborazione destinata all’estrazione di criptovalute). Stando a quanto riportato dal Centre for Alternative Finance dell’Università di Cambridge nella sua ultima Bitcoin Mining Map (aggiornata ad agosto 2021), infatti, la Repubblica post-sovietica è ora al secondo posto con una quota mondiale pari al 18%, dietro agli Stati Uniti che raggiungono il 35%, ma davanti alla Russia, che si ferma all’11%. Fino al giugno di quest’anno, prima della messa al bando, la classifica era dominata dalla Cina, con quasi il 35% globale. Per dovere di cronaca, l’Italia si ferma allo 0,05%.
Se finora le autorità kazache hanno visto nelle attività legate alle criptovalute soprattutto un’opportunità di diversificazione economica e di afflusso di investimenti nel paese, nel giugno 2020 era stata espressa la volontà di attrarre nel triennio successivo oltre 700 milioni di dollari di investimenti nel settore, le ricadute energetiche potrebbero cambiare il quadro. Il razionamento nei confronti dei più grandi consumatori è già iniziato e si parla anche di misure per limitare l’accesso alla rete elettrica agli operatori di mining non registrati o dell’introduzione di un limite massimo di afflusso energetico destinato al settore nel suo complesso.
La crisi di un paese può però rappresentare un’opportunità per un altro. Come riportato da Eurasianet, infatti, la società di stato russa Inter RAO, operatore di esportazione e importazione di energia elettrica, si è subito proposta per aprire un canale di fornitura a prezzi di mercato verso il Kazakistan, un’alternativa dispendiosa per le autorità kazache ma probabilmente l’unica al momento percorribile, considerando l’approssimarsi del rigidissimo inverno centro asiatico. Una proposta che è al vaglio del Ministero dell’Energia di Nur-Sultan, consapevole che, come spiegato dal Viceministro Murat Zhurebekov durante una conferenza stampa, per una soluzione più sistemica del problema servirebbero investimenti nella rete nazionale per almeno 1,5 miliardi di dollari e come minimo cinque anni di tempo.
Il tema è anche ambientale, oltre che economico. Il Kazakistan occupa infatti la decima posizione a livello globale per emissioni pro capite di anidride carbonica e, considerando che gran parte dell’energia elettrica viene prodotta internamente utilizzando centrali a carbone tenendo il prezzo della stessa artificialmente basso, la difficoltà di soddisfare la domanda interna ritarderà ulteriormente il passaggio alle energie rinnovabili. L’impatto delle criptovalute sulla sostenibilità ambientale è d’altronde un tema sempre più sotto i riflettori, anche perché i numeri parlano da soli. Alcune stime indicano come l’”estrazione” di Bitcoin – la criptovaluta più diffusa e conosciuta – generi tra i 22 e i 23 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno, pari alle emissioni di paesi come la Giordania o lo Sri Lanka. Ancora, secondo dati dell’Università di Cambridge, il quantitativo di energia elettrica annuo necessario per produrre i Bitcoin è pari a quasi 122 Terawattora, maggiore del consumo annuo di paesi come Argentina, Olanda ed Emirati Arabi Uniti.
Altri paesi potrebbero presto prendere la stessa decisione della Cina, mettendo al bando l’attività di estrazione. È quanto, ad esempio, è stato recentemente auspicato dalla Finansinspektionen, l’Autorità di vigilanza finanziaria svedese, e dall’Agenzia svedese per la protezione dell’ambiente. Nel pieno della Cop26, appena conclusasi a Glasgow con un accordo ritenuto insoddisfacente da molti osservatori, i due organismi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta, in cui si sottolinea che il crescente interesse per le energie rinnovabili dei minatori di criptovalute non rappresenta un elemento positivo ma un pericolo, perché le rinnovabili prodotte dovrebbero essere utilizzate per la transizione climatica di servizi essenziali verso modelli sostenibili. Da qui l’invito a proibire l’attività di mining sul territorio svedese.
Se il tema divide in contesti in cui non vi sono rischi di razionamenti energetici, la questione non può che diventare ancora più spinosa in paesi, come il Kazakistan, dove il favorire a livello istituzionale ed economico un settore come quello delle criptovalute può avere pesanti ricadute sulla vita quotidiana dei cittadini. Un dilemma al momento di difficile soluzione.