Una ripresa post Covid avara con i lavoratori. Perché non solo crescono unicamente i posti a termine, ma un terzo dei contratti attivati nei primi sei mesi del 2021 è part time. In molti casi involontario. Che significa lavorare e guadagnare molto meno di quel che si vorrebbe, in un circolo vizioso che va ad allargare ulteriormente la platea dei working poor che faticano ad arrivare a fine mese. Non solo: i dati messi in fila dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp, ex Isfol) nel policy brief Una ripresa… a tempo parziale mettono in evidenza che si sta allargando ulteriormente il gap tra uomini e donne, perché nel 42% dei casi quelle che hanno trovato un posto tra gennaio e giugno hanno un contratto a termine (o comunque discontinuo) e pure a tempo parziale. Caratteristiche che ha solo il 22% della nuova occupazione maschile. In questo quadro, il commissario europeo al Lavoro Nicolas Schmit intervistato dalla Stampa invita l’Italia ad affrontare il problema dei “salari molto bassi” nonostante un “sistema di contrattazione collettiva molto esteso”. Sta a Roma decidere se farlo con il salario minimo orario, che è uno dei pochi Paesi Ue a non avere,. Il ministro Andrea Orlando (Pd) concorda sul problema – “c’è una perdita verticale del potere d’acquisto e difficoltà della contrattazione a farvi fronte” – ma non offre soluzioni. Mentre il presidente della Camera Roberto Fico (M5s) chiede di “ragionare sull’adozione del salario minimo nel nostro Paese”, a valle di “una discussione approfondita a partire dai dati che vedono l’Italia arretratissima sul piano della crescita salariale”.
Il rapporto Inapp aiuta a inquadrare la situazione. Su 3,3 milioni di contratti attivati nei primi sei mesi del 2021 il 35,7% (1,1 milioni) è stato firmato su un part time, in molti casi “involontario” cioè non scelto dal lavoratore. “Dopo oltre un anno e mezzo dall’inizio pandemia, nel primo semestre del 2021”, si legge, “l’occupazione nel nostro Paese è ripartita ma è sempre più “part time”. Persistono nei nuovi contratti attivati rilevanti differenze di genere: il 49,6% delle nuove assunzioni di donne è a tempo parziale, contro il 26,6% degli uomini. E il 42% dei nuovi contratti di donne associa al regime orario a tempo parziale anche una forma contrattuale a termine o discontinua – debolezza che riguarda solo il 22% della nuova occupazione maschile. La componente femminile rappresenta complessivamente il 39,6% del totale delle attivazioni, confermando il gap di genere. Sul totale dei nuovi contratti a donne sono part time il 54,5% di quelli a tempo indeterminato, il 63,7% nel tempo determinato, il 44,5% in apprendistato, il 45,9% in lavoro stagionale e il 42,4% % in somministrazione. “L’essere under 30 e vivere al Sud – prosegue l’Inapp – continua a rappresentare una condizione di svantaggio ulteriore“.
“La lettura di questi dati ci dice che la ripresa dell’occupazione in Italia – commenta il presidente dell’istituto, Sebastiano Fadda – rischia di non essere strutturale perché sta puntando troppo sulla riduzione dei costi tramite la riduzione delle ore lavorate. La “prudenza” delle imprese rischia di incrementare la fascia di lavoratori poveri e il gap di partecipazione e reddito esistente tra uomini e donne. Il traino del Piano di ripresa e resilienza dovrebbe essere invece l’occasione per spingere sulla creazione di lavoro stabile, perché senza la prospettiva di una graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro si rischia di avere effetti negativi sulla produttività e sulla competitività”.
E’ il momento di introdurre anche in Italia il salario minimo? “Non spetta alla Commissione decidere per gli Stati e non è mia intenzione cercare di convincere un governo a introdurlo”, dice il commissario Ue Schmit. “So che l’Italia sostiene la proposta e questo mi fa molto piacere. Non voglio interferire. Mi limito solo a far notare che l’Italia ha un sistema di contrattazione collettiva molto esteso, forse il più esteso dell’intera Ue, ma al tempo stesso ci sono salari molto bassi. Questo è un aspetto che va affrontato”. Quanto al reddito di cittadinanza, “credo sia uno strumento giusto per combattere la povertà e l’esclusione economica e sociale. La Commissione lo ha sempre difeso e per questo sostengo il governo nella sua decisione di mantenerlo. Ma sono d’accordo nel dire che devono esserci delle condizioni: bisogna per esempio fare in modo che i beneficiari seguano corsi di formazione e vadano alla ricerca di un lavoro: solo così li possiamo aiutare a reintegrarsi nel mercato del lavoro e nella vita sociale per essere autonomi. Un reddito di cittadinanza è importante per prevenire la povertà, ma non ci si può limitare al sussidio”.
Se Orlandi si limita ad auspicare che “si sblocchi un confronto che su questo tema”, perché “se non si vuole il salario minimo bisogna adeguare in qualche modo le regole della contrattazione” e “se la contrattazione resta ferma, il salario minimo diventa una opzione“, il presidente della Camera Fico è più netto: “Il tema del livello dei salari in Italia va affrontato con urgenza. Serve una discussione seria su quali strumenti introdurre per tutelare i lavoratori e combattere così vere e proprie forme di schiavitù. In questo momento storico occorre ragionare sull’adozione del salario minimo nel nostro Paese”.