Una vera e propria “dark-room” per influenzare nell’ombra il voto degli italiani sulle riforme costituzionali. Fuori dal web, querele e citazioni “a raffica” contro giornalisti e articoli sgraditi. Le carte dell’inchiesta su Open documentano le azioni degli uomini di strettissima fiducia di Matteo Renzi, l’imprenditore Marco Carrai e il presidente di Open Alberto Bianchi che erano mente e braccio della Fondazione costituita per sostenerne l’ascesa. Agli atti dell’inchiesta su Open c’è una lunga chat tra i due che esplicita il modo di operare dei fedelissimi dell’ex premier accusati insieme a Renzi, Boschi e Lotti di finanziamento illecito (Bianchi e Lotti anche di corruzione). La messaggistica, riprodotta in 900 pagine, è stata scandagliata da Il Domani, e conferma quanto scritto da questo giornale sulla natura e lo scopo dell’ormai famosa “bestia” renziana. E molto altro ancora.
Alla vigilia del voto del 4 dicembre 2016 i sondaggi non buttano bene, e così si sfogava Bianchi con Carrai: “Da 10 anni Casaleggio e Grillo lavorano alle loro piattaforme, e noi spendiamo 1,2 milioni su cartelloni. Salvo poi chiedere a Carrai e Open di rimediare a forza di quattrini alle loro distrazioni del cazzo”. “E negli ultimi 30 giorni!”, aggiunge. E ancora: “Ma tu lo sai che mentre la mia supercarta di credito viene bloccata per eccesso di spesa su Facebook quegli stronzi del Pd investono 1,2 milioni su cartelloni comunali che dopo vengono strappati e ricoperti?”.
Cosa succedeva di diverso, in quei 30 giorni? Che “a forza di quattrini” Carrai aveva messo in piedi quella che lui stesso, nella chat, definisce la “dark-room”, cioè una struttura che lavorava nell’ombra per influenzare tramite i social il consenso attorno al voto su cui Renzi e il suo “giglio” si giocavano l’osso del collo: governo, segreteria del Pd, l’intera carriera politica che in caso di sconfitta ha giurato di lasciare, salvo non farlo. La famosa “bestia”, per le cronache, quella che era arrivata a costare la bellezza di 330mila euro al mese e prosciugherà nel giro di una manciata di mesi i finanziamenti raccolti da Bianchi&C.
Le sue fondamenta prendono forma il 5 ottobre 2016, quando Carrai chiede a Bianchi di reperire uno spazio adeguato allo scopo. “Hai un immobile a uffici da affittare a Firenze? Mi serve tutto pronto entro venerdì. È per la dark room (..). Mi serve per tre mesi. Entro venerdì ci devo andare quindi mi serve pronto. Allacciamenti compresi. Non sarà una cosa pubblica” precisa a Bianchi, che è anche l’uomo che paga le spese di Open, tramite i finanziamenti che via via raccoglie.
La sede “non sarà pubblica” per almeno due motivi. Il primo è che dentro quell’ufficio, individuato poi in via Giambologna e successivamente trasferito in via Giusti, lavoreranno 10 persone con la mansione di imbastire la guerriglia social a sostegno del “sì”, ricorrendo anche ad armi non convenzionali. Per le quali, non a caso, viene ingaggiato l’ex hacker Andrea Stroppa, già consulente di Carrai, che – come riporta Il Domani – in passato fu indagato e poi assolto per aver partecipato a un’associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di accessi abusivi a sistemi informatici che nel 2013 colpì siti di polizia e carabinieri, del Viminale e di politici come Beppe Grillo e Massimo D’Alema. Lo stesso termine darkroom (“camera scura”) in ambiente informatico-digitale sta a indicare un’attività che per definizione non può e non deve esser fatta alla luce del sole. Quale fosse, lo esplicita lo stesso Carrai due settimane dopo: “In una settimana hanno fatto 600 fakes, che non avevano fatto nei sei mesi precedenti nessuno”, annuncia entusiasta il 18 ottobre. I “fakes”, per intenderci, sono proprio quei profili social fittizi creati appositamente per orientare il consenso e per colpire gli avversari viralizzando i post propagandistici: quelli che Renzi ha sempre negato di usare e invece ha utilizzato, dopo aver accusato per anni, pubblicamente, i grillini di farlo.
C’è poi un secondo motivo di riservatezza. Carrai ha sempre negato di lavorare per Renzi, ma dalla corrispondenza con Bianchi su ogni affare, carte di credito e spese della Fondazione comprese, pare proprio il contrario. I loro rapporti finiscono sui giornali soprattutto quando, proprio nel 2016, Renzi tenta in ogni modo di promuovere Carrai, socio di una società di cybersecurity, a capo dell’ufficio che a Palazzo Chigi si occupa della difesa cybernetica del Paese. Ed ecco un altro motivo di prudenza: sarebbe stato difficile spiegare che, nel frattempo, Carrai stava imbastendo una “darkroom” renziana, pagata coi soldi di Open, per imbastire campagne di troll, boot e profili falsi. Per questo l’operazione non deve lasciare impronte, specie sui computer. Carrai chiede a Bianchi di dotare il gruppo di lavoro darkroom dei i pc da cui sferrare gli attacchi per sostenere il leader. Chiede a Bianchi di provvedere alla svelta, ma con l’accortezza di non comparire direttamente: “Per comprare i computer come faccio? Pago io e poi riprendo i soldi o meglio pagare direttamente come Open per non far girare soldi tra me e la Fondazione?”.
C’è un’altra questione scottante: il trattamento da riservare a giornali e giornalisti. Nelle ultime settimane, si sa, Renzi ha annunciato querele a tutto spiano. Dalla messaggistica si capisce che non è una novità, ma una scelta strategica fatta a tavolino già molti anni prima. Pochi mesi dopo il referendum, siamo a febbraio 2017, Bianchi annuncia a Carrai di aver mandato questo appunto a Matteo Renzi per rispondere a notizie sgradite o ritenute diffamanti: “Il disegno mi pare semplice e chiaro: merda su tutti. Carrai allora e sempre¨ boschi¨ poi Lotti, Tiziano. Domani Bonifazi e Bianchi (domani verranno fuori le intercettazioni di bocchino – bocchino! – che dice che per arrivare a Renzi bisognava andare da Bianchi). Io risponderei: querele e citazioni una al giorno da parte di tutti contro chiunque metta in dubbio la ns onesta. A raffica. E poi è vero che non abbiamo i giornali e le TV e non siamo Berlusconi ma qualche giornalista”. E l’altro risponde: “Se mi mettono nel mezzo querelo di sicuro”. Renzi prenderà il consiglio alla lettera. Alla fine il referendum lo perde, neppure la macchina della propaganda social con darkroom incorporata è bastata. E Bianchi un anno, il 12 novembre 2017dopo tira le somme, ricordando a Carrai i “due milioni spesi per quel referendum del cazzo e i social, senza averli”.