“Fuortes diceva ‘i partiti non bussano alla mia porta’? In effetti è vero. In questi mesi è andato lui a bussare alla politica“. A dirlo, intervistato da il Foglio, è Pier Luigi Celli, ex direttore generale della Rai ed ex direttore della Luiss. Il giorno dopo le proposte di nomina per i Tg Rai e in attesa di capire cosa succederà in cda, il manager critica le scelte esplicitamente figlie di una lottizzazione della tv pubblica che non si è mai interrotta e che, anche sotto l’esecutivo dell’ex presidente della Bce, viene riconfermata. “Le persone dignitose in questi casi si dimettono”, è il commento di Celli secondo cui Fuortes si è limitato a eseguire i desiderata dei partiti. Perché, continua, “è più dignitoso andarsene che fare i camerieri”. Così mentre le offerte televisive intorno cambiano ed evolvono, la Rai resta uguale a se stessa e schiava delle dinamiche interne delle forze politiche: “Questo è il fallimento più chiaro di Mario Draghi, ma io non mi facevo illusioni per la verità”, dice ancora Celli. “La carcassa va spolpata fino all’ultimo pezzo”.
Eppure, solo a fine ottobre, Fuortes intervistato da Repubblica aveva sentenziato: “I partiti non bussano alla mia porta”. E ancora: “Sceglieremo i direttori in base alle competenze”. Dichiarazioni che erano cadute nel vuoto e che già stridevano con la realtà dei fatti: infatti, proprio nelle ultime settimane l’ad è stato avvistato in giro per i palazzi, tra la Farnesina e Palazzo Chigi, senza dimenticare la partecipazione al compleanno dell’esponente Pd Goffredo Bettini con vari politici bipartisan. E il risultato di quegli incontri privati e non è sotto gli occhi di tutti, con tanto di spaccature del fronte giallorosso e rischi di effetti a lungo termine sul governo. I perdenti delle trattive sono sicuramente i 5 stelle: il Movimento perde il Tg1 senza una vera compensazione (anche per colpa del fuoco amico di Luigi Di Maio) e Giuseppe Conte annuncia l’Aventino e il rifiuto di partecipare ai programmi della tv pubblica.
“Vent’anni fa stavo al suo posto. A capo dell’azienda”, ricorda sempre al Foglio Celli rievocando le sue dimissioni a febbraio 2001, quando accusò il centrosinistra di voler schierare l’azienda contro Berlusconi. “Al settimo piano di Viale Mazzini. I partiti cominciarono a mangiarmi la pappa in testa. E io me ne andai. Anche Antonio Campo Dall’Orto si è dimesso, più di recente. È più dignitoso andarsene che fare i camerieri, specie se come Fuortes hai strombazzato la tua indipendenza. Specie se ti trovi a gestire una situazione tragica come quella attuale della Rai e poi finisce com’è finita”. Ma secondo Celli il problema va oltre le questioni politiche e dimostra una grave miopia sul futuro dell’azienda. “La Rai rischia il fallimento. Il mondo è cambiato. Ci sono Netflix, Amazon, Disney+ e questi in Rai che fanno? Si spartiscono le direzioni di quattro tg che invece andrebbero accorpati come sta facendo persino Mediaset che non è precisamente un’azienda moderna”. E ancora: “Persino Mediaset, che non è un’azienda moderna, si sta ristrutturando. E comunque Mediaset ha una prospettiva”, dice ancora Celli. “Può essere venduta. Ma la Rai? La Rai non la vendi. La Rai non è un’azienda qualsiasi. La Rai diventa un’altra Alitalia. Solo che è più grande di Alitalia, dunque è un disastro sociale più grosso. E inoltre forse è anche molto più importante di Alitalia, perché in teoria avrebbe una funzione sociale. La Rai è l’immaginario di questo paese, ammesso che questo paese abbia ancora un immaginario”.