Lo denunciava esattamente 40 anni fa l’allora leader del Pci, Enrico Berlinguer, in una intervista rilasciata a Eugenio Scalfari per Repubblica: “I partiti si sono impossessati di tutte le istituzioni, a partire dal governo, poi gli enti locali e di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali”.
Il motto “Fuori partiti dalla Rai” è ormai diventato uno stigma tutto italiano, che si perpetua a ogni campagna elettorale nazionale e che ha la stessa dignità del dilemma sull’uovo e sulla gallina: sarà nato prima lo slogan “Fuori partiti dalla Rai” o la Rai? Certo è che si tratta di una promessa fatta praticamente da tutti i governi degli ultimi decenni e mai mantenuta.
E allora vale la pena scorrere le dichiarazioni più significative degli ultimi 11 anni, che coprono tutto l’arco dei partiti, all’indomani delle nuove nomine proposte dall’amministratore Carlo Fuortes che hanno provocato prima la rivolta del Movimento 5 stelle, escluso nonostante sia il primo partito in Parlamento, e poi la protesta dei comitati di redazione e del sindacato interno Usigrai, tutti fortemente critici verso il metodo e verso “logiche spartitorie che rispondono ai desiderata del governo”.

A perorare la causa di una Rai libera dal giogo dei partiti fu, tra i primi, Pier Luigi Bersani, che, il 13 ottobre 2010, nelle vesti di segretario del Pd, condannò fermamente la sospensione disciplinare subita da Michele Santoro per decisione del direttore generale della Rai, Mauro Masi, e annunciò una proposta di riforma dell’azienda: “Abbiamo presentato due semplici articoli di legge che tirano fuori la Rai dai partiti. La Rai deve tornare a essere un’azienda, così non si va avanti. Noi vogliamo una radicale trasformazione del sistema di governance”.
Lo ribadirà nel luglio del 2011 e nella trasmissione “Piazzapulita” cinque mesi dopo: “Da mesi c’è in Parlamento una nostra proposta di due semplici articoli, che dicono una cosa: “i partiti fuori dalla Rai”. Fuori tutta la baracca di partiti e di non partiti. Sia chiaro che, se non si cambiano queste regole, al prossimo giro di nomine del cda Rai, noi stiamo fuori”.

Più o meno nello stesso periodo, il nascente e volitivo ‘rottamatore’ dem Matteo Renzi, sindaco di Firenze, organizzava la sua prima Leopolda con un ricco parterre di ospiti, tra cui Giorgio Gori che propose la sua ricetta, poi promossa negli anni successivi dal gotha renziano, come Luca Lotti nel 2014 in occasione della convention nazionale di Italia dei Valori a Sansepolcro (Arezzo): “Innanzitutto, per rilanciare la Rai metterei i partiti fuori dalla gestione della televisione di Stato. Basta con il cda nominato dal Parlamento, basta con la lottizzazione. Penso a un modello di gestione molto simile a quello della tv pubblica inglese, la Bbc, dove esiste un comitato strategico nominato dalla regina. Nel nostro caso, dovremo ricorrere al presidente della Repubblica. Questo comitato ha l’onere di nominare un comitato esecutivo, fatto da manager. Niente politici nella gestione della Rai”.
Gli farà eco Renzi che, sullo stesso palco, annuncerà: “Noi saremo quelli che terremo i partiti fuori dalla Rai, fuori da Finmeccanica, fuori dalle municipalizzate. Oggi, qui, adesso. Perché se tu non fai questo, non sei credibile su tutto il resto“. Mantra che ripeterà il 19 aprile 2012 nella trasmissione di Michele Santoro, “Servizio pubblico”.

Il claim “Fuori i partiti dalla Rai” è anche e soprattutto il cavallo di battaglia dei 5 Stelle. Il parlamentare Roberto Fico, appena nominato presidente della Commissione Vigilanza Rai, il 6 giugno del 2013 fu tranchant: “Nel nostro progetto di questa commissione cercheremo di levare le mani dei partiti dal servizio pubblico del Paese. Questo è il nostro faro e questa è la prima cosa che cercheremo di fare in tutti i modi”.
Il 30 settembre dello stesso anno accompagnerà Beppe Grillo nella sua incursione nel palazzo della Rai, dove il fondatore del M5s, che sul suo blog conduceva una crociata veemente contro la lottizzazione del servizio pubblico, ebbe un confronto vivace coi giornalisti presenti.
Una settimana dopo Fico sarà ospite della trasmissione “Che tempo che fa” e dovette, suo malgrado, abbozzare alla provocazione ironica del conduttore Fabio Fazio: “Ma voi occupate la Rai e dite ‘i partiti fuori dalla Rai’?”.

Il 2014, invece, è stato l’anno dei proclami reiterati dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, che, impegnato nella martellante campagna per le elezioni europee del 25 maggio, scodellò lo slogan sui ‘partiti fuori dalla Rai’ in ogni possibile salsa e in diversi talk show politici, da “Piazzapulita” ad “Announo”, dove ebbe un confronto serrato col direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Il giornalista, in quell’occasione, ricordò le insurrezioni dei renziani per la parodia di Maria Elena Boschi a opera dell’attrice Virginia Raffaele. Renzi si dissociò dalle lamentele dei suoi e aggiunse: “Io una trasmissione come questa la vedrei bene in Rai, perché è servizio pubblico. Io non sono quello dell’editto bulgaro o dell’editto ligure. Io ho detto: fuori i partiti dalla Rai. Quindi, non venga a parlare a me di libertà del giornalismo”.

L’annuncio più roboante di Renzi fu dato indubbiamente il 16 maggio del 2014, nel corso della trasmissione “24 Mattino” di Alessandro Milan: “Costi quel che costi io ho intenzione di togliere la Rai ai partiti. Se siamo rottamatori vuol dire che lo siamo non per finta. Io non ho mai parlato con i vertici Rai e trovo folle che ora si pensi che la Rai sia nelle mani del Pd”.
Nella stessa giornata, dal palco di Pesaro, farà un riferimento sarcastico a un battibecco televisivo che ebbe con Giovanni Floris a “Ballarò” e ripeterà: “La Rai non è dei giornalisti e dei sindacati della Rai. È dei cittadini. Non vogliamo decidere i capiredattori o mettere i “nostri”. Vogliamo prenderla, eliminare gli sprechi, e restituirla ai cittadini che sono i veri titolari del servizio pubblico”.

Dopo le europee, nella sua e-news del 30 luglio 2014, affermerà: “Ci sono 1000 giorni davanti a noi dal primo settembre 2014 alla fine di maggio del 2017 quando, con calma e pazienza, libereremo l’Italia dai vincoli che non la fanno ripartire. Ma non potremo farlo senza una discussione pacata, seria e civile sul vero valore aggiunto del nostro Paese: la cultura. Che in Italia vuol dire musei, certo. Musica, arte, ricerca, turismo, innovazione. Ma vuol dire anche Rai, che va tolta ai partiti per ridarla al Paese“.

Il 2015 è l’anno della tanto attesa riforma renziana della Rai: di fatto, del modello Bbc non c’era un minuzzolo e la longa manus dei partiti era sempre presente, come è stato ampiamente dimostrato dalle lottizzazioni politiche dell’azienda e dalle successive nomine Rai.
Fragorose sono state le proteste dei 5 Stelle, mentre dal centrodestra, se Salvini su twitter invocava una Rai libera dai partiti mescolando artatamente la nomina di Monica Maggioni a presidente della Rai con la Trilateral e complotti vari, a essere più incisivo fu, a sorpresa, Renato Brunetta di Forza Italia, che nell’agosto del 2016 a “In Onda” e nei corridoi di Montecitorio, fece suo il verbo dei ‘partiti fuori dalla Rai’ e accusò: “Il governo Renzi sta facendo carne di porco sulla Rai. Renzi aveva detto ‘Fuori i partiti dalla Rai’. Tutti evidentemente, tranne il suo partito personale. Questo è inaccettabile. Fuori i partiti dalla Rai, ma soprattutto il partito di Renzi“.

Nel ricco campionario dei politici non può mancare l’attuale segretario del Pd, Enrico Letta, il quale, tranne che in una intervista rilasciata al fattoquotidiano.it nel giugno del 2012, si è sempre tenuto distante dal ginepraio di polemiche sulla governance Rai fino agli inizi di maggio di quest’anno, dopo la vicenda di Fedez. Come ha rivelato in un retroscena il Corriere della Sera, Letta avrebbe sollecitato un ‘cambio di passo’ e ‘una fortissima discontinuità’ in quelle che sarebbero state le ultime nomine Rai. Ed ecco che ricompare il mantra autoctono tutto italiano: fuori i partiti dalla Rai, sì al criterio del curriculum.
Il resto è storia.

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