di Guido Scorza, Componente del garante per la protezione dei dati personali
La notizia è, ormai, drammaticamente nota: online si trovano migliaia di green pass autentici o, almeno, apparentemente autentici in vendita o gratuitamente disponibile per chi, magari non essendo vaccinato e non intendendo vaccinarsi né farsi periodicamente un tampone non voglia, comunque, rinunciare alla maggior libertà offerta dal possesso dell’ormai celeberrima certificazione verde.
Il “giochetto” – come già raccontato su queste colonne – è tanto facile quanto pericoloso. Si trova online – appunto gratis o a pagamento – il Green Pass di una persona dello stesso sesso e, più o meno, della stessa età, lo si scarica, lo si salva sul proprio smartphone o lo si stampa su un foglio di carta e poi si inizia a usarlo come se fosse proprio. Ovviamente oltre che un’azione eticamente indifendibile e completamente priva di senso civico – perché ci si espone e soprattutto si espongono altre persone al rischio di contagio – è un reato o, forse, più di un reato, tutti egualmente gravi.
Chi sceglie di farlo gioca sul fatto che chi dovrebbe non controlla che i Green Pass esibiti corrispondano effettivamente a chi li esibisce semplicemente verificando la corrispondenza del nome, cognome e data di nascita presenti sul green pass con quelli presenti su un documento di identità che, pure, i verificatori possono certamente esigere venga loro esibito. Spesso e volentieri, però, non si chiede il documento e ci si trincera dietro all’alibi della privacy. Utile sotto questo profilo metterlo nero su bianco, chiaro e forte: la privacy non c’entra niente e non ostacola in alcun modo la verifica dell’identità di chi esibisce un green pass a chi, per legge, è tenuto a verificarlo.
Ma come è potuto accadere che online siano finiti interi archivi con centinaia e, in taluni casi, migliaia di Green Pass di altrettanti ignari cittadini?
Troppo presto per dirlo. L’istruttoria del Garante per la protezione dei dati personali con il supporto della Guardia di Finanza è appena iniziata e le ipotesi sono diverse. Ma con la sola eccezione di quella – per la verità, allo stato, poco verosimile – di una breccia aperta nel database di Stato nel quale sono conservati tutti i green pass dei cittadini italiani tutte le altre, probabilmente, hanno all’origine un dato comune: il titolare del Green Pass ne ha perso il controllo esclusivo. Non si è limitato a esibirlo, attraverso il proprio smartphone o un foglio di carta, ma lo ha inviato a qualcuno in formato digitale o caricato su questa o quella piattaforma. Poi qualcuno ha violato i cassetti digitali, ovviamente diversamente sicuri, di chi magari anche in barba alla legge che salve poche eccezioni ne vieta la conservazione li conservava, e ha scelto di venderli o diffonderli online, per far soldi o semplicemente come azione di protesta contro il sistema.
Grave, gravissima, ovviamente, inutile persino ricordarlo, la condotta di ha ammassato i green pass in questione e li ha poi resi disponibili al pubblico violando la privacy di migliaia di persone. E, però, poco responsabile – e questo vale la pena dirlo senza giri di parole – anche la scelta di chi di noi, magari a caccia di un po’ di comodità in più o semplicemente per pigrizia, anziché limitarsi a esibire il Green Pass ha scelto di pubblicarlo online, inviarlo a qualcuno via mail o in maniera analoga o di caricarlo su questa o quella piattaforma. Perché così facendo, senza che fosse necessario, ne ha perso il controllo, confidando che il destinatario lo avrebbe conservato con la necessaria cautela e magari distrutto appena non più necessario.
E allora, sui social, si direbbe: ripetete con me, il modo più sicuro – per noi e per gli altri – di usare il green pass è esibirlo ogni volta che la legge lo richiede per accedere in un luogo o svolgere una determinata attività. Ogni altra soluzione, magari sembrerà anche più comoda, più semplice, più pratica, più smart e ci farà risparmiare qualche minuto ma, inesorabilmente, ci espone a un rischio tutto sommato inutile, sciocco, evitabile.