Le nuove regole previste dagli Accordi di Parigi sono però state definite solo alla Cop26 di Glasgow. Tra luci e ombre, si fanno alcuni passi avanti e si coinvolgono anche i Paesi in via di sviluppo, tra cui Cina e India, ma il mercato del carbonio porta con sé alcuni dei limiti già mostrati in passato
Se si riuscirà a rimanere sotto la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento globale e a farlo in modo ‘sostenibile’, dipenderà anche dal funzionamento dei nuovi meccanismi di mercato del carbonio previsti dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi del 2015. Sostituiscono quelli del Protocollo di Kyoto, sotto il quale le emissioni planetarie sono cresciute quasi annualmente. Le nuove regole, il Paris Rulebook, sono però state definite solo alla Cop26 di Glasgow. Tra luci e ombre. Si fanno passi in avanti sulla trasparenza e si coinvolgono anche i Paesi in via di sviluppo, tra cui Cina e India, ma il mercato del carbonio porta con sé alcuni dei limiti già mostrati in passato (come la poca attenzione ai progetti sull’adattamento) e su cui c’è stata una negoziazione complessa con i Paesi più vulnerabili. Molto dipenderà dal monitoraggio di meccanismi che, però, restano volontari. Il rischio è quello di lasciare vecchie e nuove scappatoie ai Paesi (e alle aziende) che hanno continuato a inquinare, acquistando sul mercato certificati di credito di carbonio o ‘compensato’ le emissioni attraverso progetti nel Sud del mondo, con impatti a volte devastanti su popolazioni e ambiente. Basti pensare ai progetti di riforestazione di dubbia efficacia, causa di abusi sulle popolazioni indigene e alle dighe sull’Himalaya in zone a rischio sismico.
Il sistema da gettarsi alle spalle
Tutto attraverso i meccanismi flessibili entrati nel Protocollo di Kyoto per aiutare i Paesi industrializzati a rispettare i target di riduzione delle emissioni. Ognuno aveva una certa quantità di crediti di carbonio, ciascuno corrispondente a una tonnellata di Co2 equivalente. Con l’Emission Trading, i Paesi che centravano l’obiettivo di riduzione potevano vendere i loro crediti a quelli che non lo facevano e che pagano il diritto a inquinare di più (evitando tagli drastici delle proprie emissioni). Con il Meccanismo per uno sviluppo pulito (Clean Development Mechanism, CDM), si poteva investire nei Paesi in via di sviluppo, senza vincoli di emissioni, per poi scontare le quantità ridotte dal proprio impegno (oggi Ndc, contributi determinati a livello nazionale). Nel frattempo, attorno al commercio dei crediti di carbonio, si è sviluppata una vera e propria industria finanziaria.
Il mercato del carbonio e gli approcci volontari di cooperazione
Con l’accordo di Parigi si prevede la nascita di un mercato mondiale delle emissioni governato, a livello centrale, dalle Nazioni Unite. L’idea, in realtà, è quella di connettere mercati già esistenti, come l’Emission Trading System (Ets) dell’Unione europea e quelli creati, per esempio, negli Stati Uniti, in Cina e in altri Paesi. “Non si crea un sistema unico e automaticamente applicabile a qualsiasi industria o Stato, come accade nell’Emission Trading System (Ets) dell’Ue”, spiega a ilfattoquotidiano.it Jacopo Bencini, consulente politico e contact point dell’ong Italian Climate network per l’Unfccc, Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. “L’articolo 6 detta le regole – aggiunge – ma tutto si basa su approcci volontari di cooperazione. Svizzera e Perù, per esempio, sono già partiti qualche mese fa con un accordo di trasferimento delle emissioni. Un governo, in teoria, può anche non mettere in piedi alcuna azione”.
Crediti ‘spazzatura’
Secondo il dossier pubblicato sul sito della Commissione Ue nel 2016, in dieci anni di Clean Developement Mechanism (CDM) di Kyoto, per l’85% dei progetti analizzati e con cui sono stati ottenuti crediti di carbonio, era bassa la probabilità che il contribuito alla riduzione dei gas serra stimato fosse quello effettivo. Progetti che, in alcuni casi, hanno alimentato il fenomeno del land grabbing e le violazioni dei diritti umani. Ora al Clean Development Mechanism subentra il Sustainable Development Mechanism e diversi Paesi, tra cui Russia, Giappone e Brasile, volevano portare nel nuovo sistema i vecchi crediti non spesi nel Cdm e ottenuti proprio con i progetti finiti sotto la lente. Si è deciso che potranno valere sul primo Ndc solo quote di crediti successivi al 2013 per 320 milioni di tonnellate di Co2 equivalente (le quote in circolazione nel sistema di Kyoto ammontavano a 4 miliardi di tonnellate).
Cosa cambia (o non cambia) rispetto al passato
Tra permessi a inquinare, speculazioni finanziarie, progetti di compensazione di dubbia efficacia (anche perché è difficile paragonare le emissioni di un’industria con quelle risparmiate con un impianto solare dall’altra parte del mondo), negli anni il sistema dei mercati di carbonio è stato più volte messo in discussione. Anche perché le emissioni non sono certo diminuite. “Non sarà il sistema idealmente migliore – spiega Bencini – ma è l’unico che abbiamo. Tornare indietro vorrebbe dire tornare a un sistema dove si collabora solo con accordi bilaterali”. L’obiettivo è quello di migliorare il carbon budget mondiale, comune a tutti “anche se per farlo si consente una flessibilità di cui i Paesi sviluppati potrebbero non aver bisogno nell’ottica di una transizione”. Si continua, infatti, a parlare di crediti di emissioni che si vanno a conteggiare sugli Ndc di qualcun altro “e nei meccanismi volontari di cooperazione per la creazione dei progetti di compensazione tutto rimane abbastanza libero”. Nel documento finale sull’articolo 6 si fa esplicita menzione a molte tutele, come quelle dei diritti umani, alla salute, dei popoli indigeni, “anche se poi bisogna vedere come queste tutele verranno effettivamente garantite, proprio perché il mercato che si va a regolare resta di tipo volontario”.
Cosa ha scontentato i Paesi in via di sviluppo
Soluzione trovata, ma solo a metà, per il rischio del doppio conteggio dei crediti per i progetti di cooperazione internazionale: “Il risultato di mitigazione sul campo è nel Paese che lo riceve, ma l’Ndc migliorato è quello del Paese finanziatore e il carbon budget totale vede calare la cifra una volta sola”. I Paesi in via di sviluppo chiedevano che questo valesse per le prime azioni di avvio dei progetti sostenibili nei loro territori e non per i crediti derivanti da eventuali implementazioni dei primi interventi. “Si faceva notare – aggiunge Bencini – il rischio di distorsioni tra le emissioni che si continuerebbero a ridurre nel Paese ricevente, mentre a migliorare sarebbero solo gli Ndc dei Paesi industrializzati. Su questo aspetto non è stata presa alcuna decisione”. Altro fronte su cui i Paesi in via di sviluppo non sono stati accontentanti è quello dell’adattamento. Si è molto discusso dei 100 miliardi di dollari all’anno (comunque insufficienti rispetto all’emergenza) che i Paesi industrializzati avrebbero dovuto mobilitare dal 2020: mancato l’impegno dei primi 100 miliardi, si punta a garantire i 600 miliardi complessivi entro il 2025 con i Paesi sviluppati chiamati a raddoppiare il loro sostegno dai 20 a 40 miliardi di dollari all’anno. “I Paesi in via di sviluppo – aggiunge l’esperto – avevano chiesto che una quota delle transazioni del nuovo mercato delle emissioni fosse destinata a un fondo di adattamento. Proposta non accettata”. Sotto Kyoto, la quota dei proventi del mercato destinati all’adattamento era del 2%. Ai Paesi industrializzati conviene di più scambiare crediti a suon di riforestazioni. Tra l’altro non sempre utili, perché una foresta non vale l’altra e gli alberi piantati oggi non hanno la stessa capacità di assorbimento di una foresta primaria. “Credo che questa ennesima prova di reticenza dei Paesi sviluppati abbia portato l’India ad assumere una posizione netta”, commenta Bencini ricordando anche la grande delusione dei Paesi vulnerabili che si sono visti negare il fondo ad hoc per le perdite e i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici. Chiesto dal Gruppo dei 77 più la Cina che, potenza mondiale nei fatti ma sulla carta dal 1992 Paese in via di sviluppo, avrebbe potuto beneficiarne. Contrari, non a caso, soprattutto Usa e Ue.
Ndc e Trasparenza
Bencini sottolinea, però, che a Glasgow si è arrivati a un sistema di regole (condivise per la prima anche dai Paesi in via di sviluppo) “che, almeno sulla carta, dovrebbero fornire maggiore governance e trasparenza, con più attenzione agli organi ausiliari di monitoraggio”. Le quantità ridotte di carbonio si scontano dagli Ndc ed entro la fine del 2022 tutti i Paesi dovranno aver presentato impegni aggiornati. Dal 2025 bisognerà presentarli ogni 5 anni, con target comuni a 10 anni, anche se i Paesi che non potranno presentarli nel 2025 lo faranno nel 2030 con target al 2040. E se oggi i Paesi in via di sviluppo possono comunicare dati di minor dettaglio sulle emissioni, dal 2024 sarà utilizzato un nuovo sistema per tutti. Vanno comunicati lo stato delle emissioni, le previsioni secondo gli Ndc e lo stato di attuazione degli Ndc. “Tra le varie opzioni c’era quella di omettere completamente dati che non si poteva o voleva comunicare, eliminando intere colonne o righe – spiega Bencini – e questo non avrebbe permesso confronti tra diversi tipi di gas o settori, ma anche tra diversi Paesi”. Alla fine la mediazione: i Paesi in via di sviluppo possono evitare di comunicare alcuni dati, riempendo le caselle mancanti con la sigla Fx (flessibilità), motivando la scelta e rendendo possibile la lettura degli altri dati.