All’inizio di questa settimana Khaleq ha caricato sua moglie e i bambini su un camion per scappare dal villaggio natale nella provincia montuosa di Badghis, distretto di Jawand, per raggiungere Herat. "Cibo e soldi erano finiti, era la nostra unica speranza di sopravvivere - racconta a Ilfattoquotidiano.it - Adesso però dormiamo all'aperto, al gelo dell'inverno. I miei bambini posso darli anche gratis a una famiglia benestante, sicuramente vivranno meglio di così"
“Sono costretto a vendere i miei figli per fame. Abbiamo abbandonato la nostra casa in un villaggio lontano e adesso cerchiamo di sopravvivere qui”. Abdul Khaleq, padre di sei figli, cinque maschi, di cui un neonato di poche settimane, e una femmina, fissa anche il prezzo: “Bastano 50 dollari, anche meno. Se necessario li cedo senza chiedere nulla pur di salvare loro la vita”, racconta a Ilfattoquotidiano.it.
All’inizio di questa settimana Khaleq ha caricato sua moglie e i bambini su un camion per scappare dal villaggio natale nella provincia montuosa di Badghis, distretto di Jawand. Siamo a oltre 300 chilometri da Herat, la città ‘italiana’, gestita in parte anche dal nostro contingente militare per quasi vent’anni durante la missione Nato, successiva agli attacchi terroristici orchestrati da Osama bin Laden negli Stati Uniti l’11 settembre 2001. La storia drammatica ed emblematica di Abdul Khaleq racconta meglio di tante analisi la situazione nella quale si trova un’ampia fetta della popolazione afghana, ormai allo stremo a causa della pesante crisi economica che sta peggiorando sempre di più dopo la nuova presa del potere dei Talebani: “Non abbiamo più nulla. Gli ultimi due mesi sono stati durissimi. La crisi economica ha fermato tutto, nel nostro villaggio non è arrivato più nulla e restare lì avrebbe significato una fine certa. Niente lavoro, niente cibo, nessuna speranza. Non c’erano alternative al metterci in viaggio. Abbiamo pensato che arrivare in una grande città (Herat, con quasi 600mila abitanti, è il terzo centro più popoloso in Afghanistan dopo la capitale Kabul e Kandahar, ndr) avrebbe potuto regalarci una speranza”.
Abdul Khaleq ha il volto tirato e la voce dimessa. Lui ha subito capito che quella speranza resta comunque remota e al suo posto sta montando la disperazione: “Sono disposto a qualsiasi sacrificio. Negli ultimi giorni io e la mia famiglia siamo riusciti a malapena a mangiare qualcosa. Dopo un passaggio a bordo di un camion, l’ultimo pezzo di strada per arrivare a Herat l’abbiamo fatto a piedi. Siamo stremati e non abbiamo un posto per dormire. Ripeto, i miei figli sono in vendita, non ho alternative. Il motivo è legato all’urgenza. Abbiamo fame, ci sono altre bocche da sfamare e quello ceduto potrebbe avere senz’altro una vita migliore rispetto alla nostra. Diffonda pure il messaggio, chiunque possa e voglia trattare io sono qui. Famiglie più benestanti di Herat o dell’Afghanistan, le organizzazioni umanitarie attive, chiunque”.
Più delle violenze settarie, delle esecuzioni e di un ritorno alle regole medievali che avevano caratterizzato la loro prima scesa al potere sul finire degli Anni 90, il governo dei Talebani sta mettendo in mostra la sua incapacità nel gestire il Paese, riducendo alla fame una fetta sempre maggiore della popolazione. Specie quella rurale dei villaggi remoti delle province più arretrate. Per ora Abdul Khaleq e la sua famiglia si sono accampati in un parco della città, una spianata al margine di una delle due arterie principali di Herat, non troppo distante dalla splendida Cittadella e dalla Grande Moschea. Il sito è stato scelto da centinaia di nuclei familiari scappati dalle campagne e dalle zone rurali più remote della provincia e di quelle limitrofe, da Badghis, appunto, a Farah e così via. Nel giro di alcune settimane è sorta una tendopoli che giorno dopo giorno si va allargando. Adesso ospita anche la famiglia di Khaleq che però ha un problema in più: il freddo dell’inverno afghano. “Non abbiamo più soldi e non abbiamo neppure una tenda per proteggerci. Siamo arrivati da pochi giorni, dobbiamo organizzarci. Per ora combattiamo il freddo con le coperte e accendendo il fuoco. Di giorno i figli più grandi vanno in cerca di un po’ di legna per scaldarci e qualsiasi cosa che possa aiutarci, anche rovistando nei rifiuti. Dobbiamo tirare avanti in qualche modo. Non eravamo ricchi prima, però riuscivamo a sopravvivere con qualche lavoretto, c’erano scambi di prodotti, si coltivava la terra. Improvvisamente, nel giro di poche settimane tutto ciò è crollato e come noi, nelle stesse condizioni, nei villaggi attorno a Badghis ci sono tantissime famiglie. Vedrà, questa tendopoli si allargherà”.
La spianata della disperazione in una città anch’essa implosa dopo l’arrivo dei Talebani al potere e la fuga rocambolesca dell’Italia e delle organizzazioni umanitarie. La fase del rilancio non si vede ancora. I Talebani sono ancora impegnati in una sorta di resa dei conti su base etnica e nei confronti di chi ha collaborato con la missione Nato e non si sono accorti che Herat, come tutto il resto del Paese, sta implodendo: “Talebani o altri, a me non interessa che tipo di governo ci sia al potere a Kabul o nelle province, la politica la fanno altri. So soltanto che se non cambia qualcosa moriremo tutti molto presto”, è il commento finale di Abdul Khaleq.