Quando Paolo si alzava e cominciava a cantare Il vestito di Rossini mi emozionavo sempre.

“Come ti chiami?”. “Ve l’ho già detto”.
“Ripeti ancora, non ho capito”.
“Sono Rossini, iscritto al partito,
sor commissario, mi conoscete”.

Ho conosciuto Sandro Portelli nella primavera del 2000. Scrivevo uno spettacolo partendo proprio da un suo libro. Uno dei più importanti per chi si occupa di storia orale. L’Ordine è già stato eseguito.

Mario Martone era il direttore del Teatro di Roma e qualche mese dopo avrei debuttato con Radio Clandestina sull’eccidio alle Ardeatine, sulla lotta partigiana, su Roma. Lo spettacolo che ho portato più volte in scena, da più tempo, su ogni tipo di palco.

Fu Sandro a propormi di fare un altro spettacolo. Soprattutto di canzoni. Ci sarebbero stati dentro Lucilla Galeazzi e Sara Modigliani, ma anche Piero Brega e Paolo Pietrangeli. Con noi venne Sonia Maurer col mandolino.

Io c’avevo meno di trent’anni e loro erano un pezzo di storia della Resistenza.

E andò alla fabbrica ed erano in mille,
tutti gridavano l’odio e il furore;
forse Giovanna il vestito vedeva
in quella folla fra tanto colore.

Parlo della Resistenza alla musica omologata, quella delle canzonette sull’amore, il cuore, ti amo, mi ami, non ti amo più, ti amo di nuovo, piccolo grande amore…

Mi ricordo quando suonammo all’Istituto Ernesto De Martino da Ivan Della Mea. Dico “suonammo”, ma in realtà io non suonavo. Nemmeno cantavo. Io stavo con loro per raccontare storie e ogni tanto facevo un po’ il coro. Ma come potevo cantare se lo facevano loro? Erano quattro voci straordinarie e diverse. E le parole non erano quell’inutile riempitivo che sta in tante canzoni solo per fare da supporto alla voce. Perché è così: senti tante voci splendide, ma se ti concentri su quello che dicono si rompe l’incantesimo. Le parole cantate in O Roma Roma Città tanto Cara, lo spettacolo che portavamo in scena, stavano tutte lì a significare qualcosa.

Aveva solo un vestito da festa,
se lo metteva alle grandi occasioni;
a lui gli dissero: domani ai padroni
gliela faremo, faremo pagar.

Mi ricordo che loro si alzavano per cantare, per suonare la chitarra. Invece io stavo quasi sempre seduto. Da allora non è cambiato molto nel mio teatro, ho solo messo i capelli bianchi. Forse stavo seduto anche perché ero il più piccolo, il meno abituato al palco e in confronto a loro ero quasi uno spettatore. Un privilegiato perché ogni sera mi vedevo uno spettacolo storico fatto di canzoni eccezionali. Contessa e Su comunisti della capitale, Semo de Cinturini, Ma che razza de città e Bella Ciao. Ma quando Paolo si alzava io aspettavo una canzone più di tutte le altre. Più di Valle Giulia e KarlMarxStrasse.

Spesso arrivava alla fine della canzone e mi veniva da piangere.

Ed ha scontato vent’anni in prigione
perché un gendarme s’è rotto la testa;
ormai Giovanna ha tre figli, è in pensione,
chissà se ha visto il vestito da festa.

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