di Pietro Francesco Maria De Sarlo
Mettetevi comodi, non vi arrabbiate e non sparate sul pianista e sull’umile estensore di questo post. L’ho scritto un po’ per gioco e un po’ per abituarmi all’idea del Berlusca al Quirinale. Credete sia impossibile? Non conoscete l’uomo.
A giugno 1986 varcavo, timido giovane di belle speranze e modesto aspetto, il portone del palazzo Donatello a Milano 2 per unirmi al gruppetto del pensatoio strategico di Fininvest, guidato dal mitico Bottino. Bei tempi! Ero un ingegnere trentenne alla terza esperienza lavorativa, trovai un contesto giovane e vivace, un ambiente stimolante e pieno di belle ragazze, tra cui la nipote non di Mubarak ma di Pillitteri, cognato di Bettino, che a breve sarebbe diventato sindaco di Milano Uno. Ci passai 15 mesi: promozioni aumenti e cesti natalizi, ricchi premi e cotillon; un mondo di frutta candita. Lasciai per diventare dirigente del gruppo Cofide: meno divertente ma più consono alla mia natura seriosa e politically correct.
Partecipai a una convention di dipendenti a Sanremo, c’era il Milan al completo e le ballerine di Drive In, più Smaila. Berlusca passava tra i tavoli e stringeva mani, anche la mia: troppo snob e troppo smagato per apprezzare. Salì sul palco dell’Ariston: standing ovation, da star di avanspettacolo che in più distribuiva prebende e promozioni. Più che lealtà chiedeva fedeltà: c’è differenza. Parlò delle origini, del padre e delle preoccupazioni degli inizi. Si commosse parlando di mamma Rosa: gli aveva predetto che sarebbe diventato presidente della Repubblica. Disse che lui le aveva promesso di riuscirci. Giuro: chi c’era ricorderà.
Mai apprezzato Berlusca in politica, ma è uno che non ha mai detto o fatto niente a caso. Se ha lanciato l’Opa sul Quirinale ha un piano. Non ha idee proprie, gli bastano quelle degli altri di cui si appropria quando ne ha necessità per qualche suo scopo. Pochi principi ma mutevoli e adattabili alle circostanze. È, come ama dire, concavo e convesso. Concavo con la Fornero, che gradisce e ricambia, e convesso con il M5S, di cui ha rivalutato il reddito di cittadinanza. Alla bisogna è filo europeista, filo Putin e filo quello che più gli necessita. Rassicura l’intellighenzia nazionale dicendo che Draghi al Quirinale mai darebbe l’incarico a Salvini e Meloni, come dire che anche a lui non piace il duo. Però il messaggio alla coppia è chiaro: “Se sognate palazzo Chigi è meglio che al Colle ci sia io”.
Chi lo conosce sa che non è prudente farlo arrabbiare, ma anche che non riesce mai ad essere cattivo fino in fondo perché prima o poi tutti possono tornargli utili. Rispetta i patti, ma solo quelli segreti e inconfessabili, quelli pubblici no. Sa far di conto, e conosce l’animo umano. Renzi, Lega, Fratelli d’Italia fanno la base, poi nel segreto dell’urna la paura del voto anticipato di tanti parlamentari senza arte né parte farà il resto. La stessa paura che ha portato Draghi al posto di Conte: chi di spada ferisce, di spada perisce. Da capo del governo gli consegnarono, il 5 agosto 2011, una lettera con una lista lacrime e sangue per gli italiani a firma del governatore della Bce Draghi. La cestinò: troppo smart per mettere una pietra tombale sul suo futuro apponendoci la firma. Non ama nuotare controcorrente. Appoggiò Monti e il suo governo che insieme a Renzi fece il lavoro sporco: dalle pensioni al Jobs act. L’unica cosa non fatta della lista è la liberalizzazione dei taxi. Resistete! Sono con voi.
Quella lettera ci è costata un botto: 300 miliardi di Pil. Chi lo dice? Padoan e Gentiloni. Dove è scritto? Nel Pnr, atto terzo del Def. Quando? Il 12 aprile 2017. Mistero: ora Draghi fa il salvatore della Patria, dopo averla quasi mandata in bancarotta. Monti ci esce pazzo. Io pure. Chi mandereste al Colle tra Berlusconi e Draghi? Tertium non datur, non fate i furbi. Berlusconi ama il burlesque ed è spregiudicato, ma non a sufficienza per fare alla Grecia quello che ha fatto Draghi. Fate voi: questione di priorità e valori.