di Monica Valendino

Tutti lo inneggiano, ma forse pochi lo vogliono davvero: silenzioso in stile Enrico Cuccia, autorevole ma anche autoritario, decisionista e bravo attendista nel non prendere decisioni che rischierebbero di farlo cadere in tranelli politici, Mario Draghi è al centro del romanzo Quirinale. Un racconto tipicamente italiano per un ruolo che deciderà le sorti del governo e degli italiani.

Un’elezione, quella al Colle del febbraio 2022, che appare incerta, e con la politica che in piena pandemia sta offrendo il peggio di sé. Il governo di tutti dove a decidere sembra essere solo lui, Draghi, in materia sanitaria non sembra azzeccarne molte. Il tanto decantato green pass non sta arginando affatto il dilagare dell’epidemia, tanto che ora occorre andare ai ripari con misure più drastiche ma che appaiono ancora nebulose e pressapochiste.

La campagna vaccinale ha raggiunto l’obiettivo dell’80% di immunizzati ma non sembra bastare. In ambito finanziario i 250 miliardi che arriveranno dall’Ue sono oggetto del desiderio di molti, ma a oggi il Pnrr tanto decantato non offre grandi spunti di cambiamento: progetti vecchi, altrettanto datate prospettive energetiche (vedi il revival nucleare), la costante paura che l’onnipresente malavita organizzata italiana possa mettere mano sul malloppo.

I partiti che sostengono il governo (tutti tranne FdI), però, sembrano non sapere bene cosa fare. L’elezione di Draghi a Presidente della Repubblica sembra l’unica via per offrire al mondo un nome apprezzato, visto che le alternative mettono i brividi a molti: un pregiudicato, un ciellino e un vecchio socialista sopravvissuto al Psi di Craxi, buono per tutte le stagioni, non sono nomi che possano unire un Paese che si sta sfaldando, dove il Parlamento viene costantemente umiliato da decreti passati con fiducia obbligata e dove l’elettorato appare più come una sorta di suddito da governare e non popolo da ascoltare.

Ma porre Draghi al Quirinale significherebbe quasi certamente elezioni anticipate, perché nessun altro nome riuscirebbe a ottenere una maggioranza. Ma quale partito vuole davvero le urne? Probabilmente nessuno: Giorgia Meloni, forte di un consenso in crescita, sente di essere sempre più estromessa con il bollino di estremista e/o populista. Lo stesso vale per Matteo Salvini, che però è in calo nei sondaggi e col fiato sul collo dei suoi luogotenenti. Il Pd trema al solo pensiero di perdere ulteriori voti (un partito che non riesce nemmeno a far passare il suo Ddl Zan come farà a convincere gli indecisi di sinistra?). I 5 Stelle sembrano precipitare verso l’ignoto, senza più quell’alone di movimento di protesta che li ha caratterizzati, ma come partito a proprio agio nelle stanze del potere. FI è sempre e solo Berlusconi dipendente, che senza il Quirinale finirebbe nell’oblio. Poi i partitini come quello di Matteo Renzi o di Carlo Calenda, che tremano al solo pensiero di andare a elezioni ben sapendo che con il taglio dei parlamentari il loro due o tre per cento non significherebbe nulla.

In mezzo, lui: Draghi. Che ora tutti inneggiano, tutti lo vorrebbero ancora a Palazzo Chigi, ma che tutti probabilmente vorrebbero scansare perché la sua ombra non fa altro che mettere in luce la modestia degli attuali leader di partito.

Un romanzo Quirinale che però non appassiona, visto che il finale sembra già scritto: le vittime saranno sempre i più deboli, a comandare le solite confederazioni (industria e commercio), la politica schiava di esse che non fa altro che barcamenarsi tra la tragedia della pandemia e la farsa del suo suo costante blaterare come un commediante che sbraita e si pavoneggia sul palco, ma che non significa nulla.

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