Per l'omicidio di Juana Cecilia Loayza è stato fermato il 24enne Mirko Genco, già posto ai domiciliari per stalking ma liberato con la condizionale il 4 novembre scorso. La dottoressa Cristina Beretti all'Ansa difende la decisione: "Le valutazioni devono essere le stesse per tutti. La persona era priva di precedenti penali e aveva iniziato la frequentazione di un centro di recupero. Ciò che è accaduto è gravissimo, ma non cerchiamo capri espiatori"
“Un giudice non ha poteri di chiaroveggenza, non può sapere ciò che accadrà dopo, stante la imprevedibilità delle reazioni umane”. Così all’Ansa la presidente del Tribunale di Reggio Emilia, Cristina Beretti, replica alle polemiche sul caso di Juana Cecilia Loayza, 34enne di origini peruviane uccisa a coltellate sabato 20 novembre in un parco della città. Per l’omicidio è stato fermato il suo ex, il 24enne Mirko Genco, già posto ai domiciliari per stalking ma liberato con la condizionale il 4 novembre scorso, dopo un patteggiamento a due anni. Una dinamica, spiega la presidente del Tribunale, identica a ciò “che accade in decine e decine di processi per reati analoghi”. I giudici, argomenta, “applicano la legge, applicano misure cautelari richieste dal pm calibrando le scelte a seconda del caso concreto, condannano alla pena che appare equa in relazione al caso sottoposto al loro vaglio”.
Le valutazioni che un giudice è chiamato a compiere, prosegue, “devono essere le stesse per tutti: comprensione del contesto, accertamento del fatto, applicazione della norma”. Diversamente, “si dovrebbero prevedere categorie di autori per i quali i principi costituzionali non sono applicabili e questo è contrario ad un sistema penale di una società liberal-democratica”. Beretti ricorda che Genco “era persona priva di precedenti penali: è stato sottoposto a misura cautelare, gli è stata applicata la pena di due anni di reclusione, aveva iniziato la frequentazione di un centro di recupero, condizione necessaria per poter avere la sospensione condizionale della pena. Ciò che è accaduto è gravissimo, ma da qui a cercare responsabilità o capri espiatori su chi non ha fatto altro che applicare la legge, come accade ogni giorno nei tribunali per fatti del tutto analoghi e che nella stragrande maggioranza dei casi hanno epiloghi del tutto differenti, credo che ce ne corra”, conclude.
Parlando del caso di Reggio Emilia in un’intervista alla Stampa, il presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, Fabio Roia, ha sottolineato la mancanza di un’adeguata specializzazione dei giudici sulla violenza di genere. “Il patteggiamento è un accordo tra difesa e accusa che il giudice deve controllare. L’eventuale pena sospesa fa parte dell’accordo: la si concede se c’è un giudizio di assenza di rischio, cioè se ci sono elementi per ritenere che il soggetto non commetta più il reato. Ovviamente non conosco le carte del procedimento e il mio è un giudizio di carattere generale. Forse non è stata fatta un’adeguata valutazione del rischio in relazione agli indici di pericolosità del soggetto. E non parlo solo del caso specifico”, ha chiarito. “Quello che manca è un’adeguata specializzazione della magistratura in materia di violenza di genere. Il magistrato – spiega Roia – deve acquisire competenze che vanno al di là di quelle strettamente giuridiche, nei campi della psicologia, medicina legale, sociologia, e criminologia”.