Livorno non fu un incidente della Storia. La trasformazione in partito del comunismo italiano, quelle poche centinaia di passi tra il teatro Goldoni e lo scalcinato teatro San Marco che fecero la storia d’Italia, non furono frutto del caso. Se ai giorni nostri l’impronta di Livorno la rossa assomiglia ai giorni nostri a uno stampino per ritratti di comodo, approfondire la strada che portò al 1921 suggerisce che non poteva che iniziare lì una storia politica, sociale e umana che sarebbe durata settant’anni. Una città nella quale il comunismo è diventato la declinazione inevitabile di un processo dai tanti nomi, dalle tante facce e dalle tante idee iniziato molto tempo prima, originato dall’humus dai tanti ingredienti dell’ex porto franco, rifugio di tutti gli ultimi d’Europa: gli ebrei perseguitati in Spagna, gli ugonotti cacciati dalla Francia da Luigi XIV e poi schiavi in fuga, criminali con carichi pendenti, debitori incalliti e bancarottieri, ladri e prostitute che con lo scudo delle Leggi Livornine videro garantita la loro libertà. Perché, dunque, fu proprio Livorno a veder nascere il Partito Comunista d’Italia? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Livorno 1921 – Dentro e oltre la classe operaia (4Punte edizioni, 144 p., 15 euro), di Olimpia Capitano, storica, ricercatrice, studiosa di global labour history, collaboratrice de ilfattoquotidiano.it.
Popolare, ribelle, sovversiva, libertaria
Livorno comunista è il 1921, certo, ma è quasi di più ciò che c’è prima, sostiene Capitano. “Un prima – scrive – che del comunismo livornese è stato culla e matrice. Un prima in cui ha preso forma un’esperienza del tutto dissonante rispetto alle rappresentazioni posteriori” e cioè “qualcosa di completamente diverso dalla narrazione settaria di un partito di quadri, chiuso e indisponibile a un dialogo più largo”. Gli aggettivi che nello sviluppo del libro più di frequente sono accostati alla storia della città girano sempre intorno a libertaria, spontanea, popolare. Insomma, sottolinea Capitano, la città rossa era tale “soprattutto in quanto popolare, ribelle, sovversiva, aliena a qualsivoglia tipo di autorità costituita e, in un secondo momento, comunista”. Con quelle origini da melting pot volute consapevolmente dai Medici alla fine del Cinquecento per puntare sul nuovo porto del Granducato, “fu naturale per la città trasformarsi nel simbolo del ribellismo anarcopopolare”. Una città nata sulle spalle umili di “senza classe”, scrive Capitano. Nient’affatto facile mescolare culture, religioni, appartenenze, anzi: era una popolazione contraddistinta da “enormi differenze, contraddizioni e conflittualità, ma accomunata da una condizione di forte subalternità rispetto al ristretto nucleo sociale dominante”. Per questo si definì “una comunità storicamente poco incline a sottomettersi a un’unica cultura o all’autorità di governo”.
Ai tempi dei moti
Di rivolte è piena la (giovane) vita di Livorno. Ci volle del bello e del buono, per esempio, agli austriaci nel 1849 per avere ragione di qualche migliaio di ribelli che qui e a Firenze – un anno prima dell’avventurosa Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini – non si accontentarono della Costituzione concessa da Leopoldo II di Lorena, granduca di Toscana, e ottennero un governo democratico, il primo in Italia, sebbene durò il tempo di un’idea. Venne Giuseppe Mazzini in persona ad annunciare la fuga del granduca (format non nuovo tra i sovrani). Agli austriaci questo intenso odore di monarchi ribaltati dal seggiolone vicino a casa propria non piaceva per niente e scesero in forze sulla costa toscana: per ogni combattente livornese si contavano dieci austriaci (per non parlare dello scarto tra gli armamenti). Servirono due giorni, il 10 e l’11 di maggio, perché le truppe austriache potessero avere ragione delle barricate livornesi. Al comando dei rivoltosi c’erano tra gli altri Andrea Sgarallino – che poi sarà tra i molti concittadini che ingrosseranno le file dei Mille di Garibaldi – ed Enrico Bartelloni, eroe risorgimentale che non vide mai l’unità d’Italia. Bottaio, quarant’anni, lo chiamavano il Gatto perché era un campione quando c’era da fuggire sui tetti. Nel momento della disfatta, però, non scelse la via di tegole e camini e rifiutò il disonore della fuga soprattutto perché vide che in quelle ultime ore la violenza austriaca non si accontentava della mera (ri)presa della città. A una guardia che per strada, a un posto di controllo, gli chiese chi fosse e dove andasse, lui rispose con un insulto per farsi arrestare: fu fucilato tre giorni dopo nella Fortezza Vecchia. Secondo alcune fonti la risposta del Gatto alla guardia fu più o meno la seguente: sono Enrico Bartelloni e vo dove cazzo mi pare.
La classe non solo operaia
A questo spirito che oggi qualcuno definirebbe anti-establishment si aggiunse poi lo sviluppo industriale e capitalistico che arricchì il porto ma non necessariamente la gente di Livorno. Qui il proletariato, spiega Capitano, “fu composto solo in parte da salariate e salariati dell’industria”. Era un prisma molto più variopinto formato da operai, navicellai, artigiani, facchini, portuali, barrocciai, pescatori, ferrovieri tessitrici, cenciaiole, corallaie, impagliatrici di fiaschi, filande e ancora ladri e prostitute: “Disoccupate e disoccupati, sottoproletari e sottoproletarie – sottolinea la storica – che condividevano il destino della marginalità e dello sfruttamento”. Una “composizione di classe eterogenea”, aggiunge, che definì “una realtà popolare difficile da assoggettare nel suo complesso”.
Il libro racconta della nascita in città di associazioni dei lavoratori negli anni Settanta dell’Ottocento – con tanto di benedizione di Bakunin in persona – e della nascita di un radicalismo politico che si traduceva nell’anarchismo e, in forma più istituzionale, nel Psi e nel repubblicanesimo intransigente mazziniano. Negli stessi giorni in cui Milano, nel maggio del 1898, insorse per la guerra del pane, Livorno si organizzava con comizi popolari, cortei in strada e scioperi di almeno 8mila tra lavoratrici e lavoratori, “dalle operaie della filanda di lana alle maestranze del cantiere navale Orlando e della Metallurgica”. Tutti i forni della città e dei sobborghi, ricostruisce Capitano, furono assaltati e svuotati in brevissimo tempo. Il 9 maggio venne dichiarato lo stato d’assedio, ma qui per un caso fortunato non c’erano generali stragisti alla Bava Beccaris.
Gli scioperi si moltiplicarono negli anni dell’inizio del Novecento, anche perché il proletariato livornese – ragiona la storica – si organizzò sul piano della rivendicazione sindacale piuttosto che su quello istituzionale. C’erano la fame e la miseria, non c’erano le case e non c’erano i soldi. A un mondo che si faceva sempre più complesso il fronte di sinistra a Livorno rispose – anche in questo anticipando il ’21 – con divisioni e diffidenze reciproche. E però, racconta Capitano, il Psi livornese negli anni Dieci “fu quasi costretto a spostarsi su posizioni e soprattutto su una retorica politica più massimaliste in risposta ai conflitti interni al partito e alla combattività sociale e operaia”. Ne andava dei voti nelle urne, quei pochi, s’intende, che erano ammessi in un tempo in cui il suffragio universale si vedeva solo col cannocchiale. Una svolta di “intransigenza” voluta – per “realismo politico” puntualizza Capitano – dal riformista Giuseppe Emanuele Modigliani, fratello maggiore del più noto, celebrato in tutto il mondo ben dopo la morte.
L’avversione per i poteri forti? Quasi istintiva
Con una sintesi molto efficace Livorno 1921 mette in fila i segmenti del quadro che accompagnerà Livorno fino al 1921, facendola diventare una delle capitali del Biennio rosso, e molto oltre. Da una parte, spiega Capitano, “il radicamento della tradizione anarcoide e la conseguente tendenza all’azione spontanea con una forte spinta sociale alla radicalizzazione politica”. Dall’altra il “sovversivismo”, cioè un “atteggiamento trasversale di radicale e quasi istintiva avversione nei confronti dell’ordine costituito, dei poteri forti, che già aveva animato il popolo minuto protagonista delle rivolte risorgimentali e di molti episodi rivendicativi e di protesta”. Infine tutto questo, sul piano politico, produce “forti tensioni partitiche che si manifestavano tanto tra le forze della sinistra quanto all’interno dei partiti stessi, specialmente quello socialista”. Alla base e all’interno del quale dopo il 1917 continua a rimbalzare la voce: Facciamo come in Russia.
Socialisti, anarchici, mazziniani, comunisti: l’osmosi di Livorno
In mezzo a questa inquietudine c’è la guerra – quella “Grande” – che impoverisce tutti e figurarsi chi povero lo era già prima. Alle elezioni del ’19 il Psi a Livorno vola a oltre la metà dei voti validi: a livello nazionale è condotto dal moderato Filippo Turati, ma in città c’è un pezzo del partito, più impaziente, che continua a sfiorarsi con l’area anarchica, intransigente, garibaldina, repubblicana. L’osmosi tra tutti questi modi di interpretare la realtà – e la volontà di migliorarla – non è un programma politico: è la vita di tutti i giorni. E ora si aggiungeva il comunismo. “Sono sempre stato un ribelle della società – racconta della sua gioventù il militante Emilio Valesini, citato nel libro – ed è per istinto di classe che andavo dai vari partiti di classe. Molte volte mio fratello Armando, socialista, mi portava al partito e spesso andavo al circolo repubblicano di via Pellegrini. Andavo anche al sindacato anarchico, tutto per farmi un’idea di quali erano le strade da percorrere nella mia vita”. Nacquero gruppi comuni, come Spartacus – formato nel quartiere “ribelle” di Ardenza da studenti – che si ispirava già dal nome alla Lega tedesca guidata da Rosa Luxemburg, ma anche come la “Lega proletaria degli invalidi, mutilati e reduci”, in sostanza Arditi di sinistra. Fino all’organizzazione di una guardia rossa, che con l’aumento degli assalti delle squadracce fasciste e la corrispondenza di amorosi sensi dei bastonatori con le forze dell’ordine e militari, divenne l’ultimo baluardo di fronte alla conquista violenta del potere dei mussoliniani: Livorno sarà l’ultima giunta comunale toscana a cadere nelle mani dei fascisti.
1921: perché Livorno
Per tutto questo dunque la scelta di Livorno come sede del congresso del Psi, quella metà di gennaio del 1921, non fu casuale, spiega Capitano: c’erano “ragioni di sicurezza” più “garantite che altrove dall’amministrazione socialista”, ma anche “dalla specificità del tessuto sociale”. Un anno e mezzo prima della Marcia su Roma “lo squadrismo fascista iniziava a mostrare i denti in modo sempre più violento – sottolinea ancora la storica – ma non riusciva a penetrare politicamente nel sostrato cittadino”. Qui neanche il primo fascismo ebbe le sue vaghe promesse “socialisteggianti”, come le definisce l’autrice, ma piuttosto si presentò subito come “un ottimo dispositivo di conservazione delle strutture di potere”: industriali, ufficiali di carriera, le loro rampanti proli. “In questo mondo dove tutti erano accomunati da un precario vivere alla giornata e sovente in contrasto con la legalità e l’ordinamento borghese tendeva a sfumarsi il confine tra proletari e sottoproletari”. Per questo il fascismo, spalleggiato da imprenditori e autorità, non attecchisce.
E’ l’unità contro le soverchierie dell’alleanza tra fascisti e “padroni” che spinge i comunisti livornesi a disobbedire anche alla linea ufficiale del partito a livello nazionale. E continuano a collaborare con le altre formazioni antifasciste. Nell’aprile 1921 promuovono un “Comitato di difesa proletaria“: dentro ci sono sindacati di tutti gli orientamenti (e i più combattivi sono i ferrovieri) e poi socialisti, comunisti, anarchici, gruppi studenteschi. Due mesi dopo nascono gli Arditi del popolo: è un’organizzazione paramilitare e anche in questo caso ci sono tutti, repubblicani compresi. Il Pci nazionale ribatte innervosito, non vuole che ci si mescoli agli altri partiti, scrive una lettera in cui ribadisce la linea. Ma che cade morta. “Giudicammo questo divieto un vero e proprio tradimento – testimonia nel libro Ilio Paperi, un militante – Lo respingemmo come assurdo e allora il compagno Barontini ci consigliò: quelli che ormai ci sono restino negli Arditi del popolo; ma operate da furbi e non compromettete il partito”.
L’assalto fascista alla città, l’ultima a cadere
Tra il 1921 e il 1922 si moltiplicarono scioperi e scontri di piazza tra forze antifasciste da una parte e fascisti sostenuti da carabinieri, guardie regie, esercito. La resistenza era piegata, mese dopo mese, con perquisizioni, rastrellamenti, fermi, sequestri delle armi di fortuna o artigianali: randelli, coltelli, rivoltelle, fucili da caccia, ordigni. Fu la lunga Battaglia di Livorno, come si intitola un altro volume uscito quest’anno, scritto dallo storico Marco Rossi (ed. Bfs, 178 pp., 16 euro). Cortei, scontri di piazza, scioperi, agguati: solo nell’agosto 1922 Livorno cade per effetto dell’azione delle truppe militari, forti dello stato d’assedio firmato dal governo. Il sindaco Uberto Mondolfi – un professore di Lettere, socialista, allievo di Giovanni Pascoli, amico di Amedeo Modigliani – rassegnò le dimissioni sotto le minacce dei fascisti, guidati tra gli altri da Costanzo Ciano, futuro ministro e presidente di quella specie Camera fascista e futuro Ganascia, soprannome nato dal sarcasmo dissacrante dei suoi concittadini per dare memoria imperitura ai suoi appetiti nei confronti cacciucco, baccalà e soprattutto affari frutto dei suoi mille conflitti d’interesse. “Sono le ore 12 – fu la minaccia di Ganascia a Mondolfi e alla giunta Psi-Pci – Alle due di oggi dovrete avere abbandonato Livorno, in caso contrario vi impiccheremo in piazza. Ci siamo intesi?”. Il marchese fiorentino Dino Perrone Compagni – capo dei fascisti in Toscana, picchiatore protagonista di numerosi assalti squadristi, massone, guerrafondaio – inviò un telegramma al segretario nazionale del Pnf, Michele Bianchi: “Fra le mie battaglie questa più faticosa”.
Barontini
“Operate da furbi e non compromettete il partito” disse il compagno Barontini ai militanti per “aggirare la linea” della dirigenza nazionale e mantenere l’alleanza con le altre forze antifasciste. Ilio Barontini, una specie di eroe romantico, combattente ovunque credeva ci fosse bisogno, un po’ Garibaldi e un po’ il Che. Nel libro di Capitano c’è un lungo capitolo dedicato a lui, che ha incarnato il comunismo “alla livornese”: anarchico, socialista, poi comunista, esule in Francia e poi in Russia, imparò la guerriglia in Cina e prese le armi nella guerra di Spagna – contro i franchisti -, di Etiopia – contro i fascisti -, di Francia – contro i nazisti -, e ovviamente nella Resistenza in Italia, dove fu il comandante partigiano in Emilia Romagna e che liberò Bologna. Il suo “unico scopo di vivere” – dirà – “è sempre stato la ricerca del buono e del giusto”. A Livorno non si dimenticano mai di aggiungere il suo nome di battaglia, Dario.
Fu lui in Francia a organizzare i partigiani comunisti dopo la presa del potere del maresciallo Pétain: gli antinazisti francesi usavano le bombe “Giobbe”, inventate da lui e chiamate così perché era il suo nome di battaglia. E’ in sostanza uno dei capi della Resistenza francese. A Marsiglia, racconta il suo allievo e compagno fidato Giovanni Pesce, fa saltare in aria l’hotel Terminus mentre c’è un banchetto di ufficiali nazisti. A Bologna usa lo stesso meccanismo per far esplodere l’hotel Baglioni, dove si è installata la Kommandantur, il comando militare tedesco. Il dirigente comunista romagnolo Arrigo Boldrini lo definisce “il cavaliere della libertà dei popoli”. Negli ultimi mesi di battaglia contro l’occupazione delle truppe di Hitler arruolava uomini con qualsiasi storia, fregandosene del loro passato di militari mandati in guerra per Franco da Mussolini o in Etiopia a conquistare il Corno d’Africa per quella specie di impero. Ora era tutto cambiato. “È questa ritrovata unità fra tutti noi il fatto più importante che ci assicurerà la vittoria”.
Politica
Livorno la rossa? Prima della nascita del Pci: perché e come la “città anarcopopolare” diventò la culla del comunismo italiano
"Livorno 1921", ultimo lavoro di Olimpia Capitano, storica e collaboratrice de ilfattoquotidiano.it, in libreria da Edizioni 4punte, ricostruisce la dinamica che ha portato il porto nato sulle umili origini degli "senza classe" di tutta Europa per volontà dei Medici a diventare prima una delle capitali del Biennio rosso e poi una delle ultime città a cadere sotto i colpi del fascismo. Così "una comunità storicamente poco incline a sottomettersi a un'unica cultura o all'autorità di governo” dette vita a un popolo dotato di un “atteggiamento trasversale di radicale e quasi istintiva avversione nei confronti dell'ordine costituito, dei poteri forti"
Livorno non fu un incidente della Storia. La trasformazione in partito del comunismo italiano, quelle poche centinaia di passi tra il teatro Goldoni e lo scalcinato teatro San Marco che fecero la storia d’Italia, non furono frutto del caso. Se ai giorni nostri l’impronta di Livorno la rossa assomiglia ai giorni nostri a uno stampino per ritratti di comodo, approfondire la strada che portò al 1921 suggerisce che non poteva che iniziare lì una storia politica, sociale e umana che sarebbe durata settant’anni. Una città nella quale il comunismo è diventato la declinazione inevitabile di un processo dai tanti nomi, dalle tante facce e dalle tante idee iniziato molto tempo prima, originato dall’humus dai tanti ingredienti dell’ex porto franco, rifugio di tutti gli ultimi d’Europa: gli ebrei perseguitati in Spagna, gli ugonotti cacciati dalla Francia da Luigi XIV e poi schiavi in fuga, criminali con carichi pendenti, debitori incalliti e bancarottieri, ladri e prostitute che con lo scudo delle Leggi Livornine videro garantita la loro libertà. Perché, dunque, fu proprio Livorno a veder nascere il Partito Comunista d’Italia? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Livorno 1921 – Dentro e oltre la classe operaia (4Punte edizioni, 144 p., 15 euro), di Olimpia Capitano, storica, ricercatrice, studiosa di global labour history, collaboratrice de ilfattoquotidiano.it.
Popolare, ribelle, sovversiva, libertaria
Livorno comunista è il 1921, certo, ma è quasi di più ciò che c’è prima, sostiene Capitano. “Un prima – scrive – che del comunismo livornese è stato culla e matrice. Un prima in cui ha preso forma un’esperienza del tutto dissonante rispetto alle rappresentazioni posteriori” e cioè “qualcosa di completamente diverso dalla narrazione settaria di un partito di quadri, chiuso e indisponibile a un dialogo più largo”. Gli aggettivi che nello sviluppo del libro più di frequente sono accostati alla storia della città girano sempre intorno a libertaria, spontanea, popolare. Insomma, sottolinea Capitano, la città rossa era tale “soprattutto in quanto popolare, ribelle, sovversiva, aliena a qualsivoglia tipo di autorità costituita e, in un secondo momento, comunista”. Con quelle origini da melting pot volute consapevolmente dai Medici alla fine del Cinquecento per puntare sul nuovo porto del Granducato, “fu naturale per la città trasformarsi nel simbolo del ribellismo anarcopopolare”. Una città nata sulle spalle umili di “senza classe”, scrive Capitano. Nient’affatto facile mescolare culture, religioni, appartenenze, anzi: era una popolazione contraddistinta da “enormi differenze, contraddizioni e conflittualità, ma accomunata da una condizione di forte subalternità rispetto al ristretto nucleo sociale dominante”. Per questo si definì “una comunità storicamente poco incline a sottomettersi a un’unica cultura o all’autorità di governo”.
Ai tempi dei moti
Di rivolte è piena la (giovane) vita di Livorno. Ci volle del bello e del buono, per esempio, agli austriaci nel 1849 per avere ragione di qualche migliaio di ribelli che qui e a Firenze – un anno prima dell’avventurosa Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini – non si accontentarono della Costituzione concessa da Leopoldo II di Lorena, granduca di Toscana, e ottennero un governo democratico, il primo in Italia, sebbene durò il tempo di un’idea. Venne Giuseppe Mazzini in persona ad annunciare la fuga del granduca (format non nuovo tra i sovrani). Agli austriaci questo intenso odore di monarchi ribaltati dal seggiolone vicino a casa propria non piaceva per niente e scesero in forze sulla costa toscana: per ogni combattente livornese si contavano dieci austriaci (per non parlare dello scarto tra gli armamenti). Servirono due giorni, il 10 e l’11 di maggio, perché le truppe austriache potessero avere ragione delle barricate livornesi. Al comando dei rivoltosi c’erano tra gli altri Andrea Sgarallino – che poi sarà tra i molti concittadini che ingrosseranno le file dei Mille di Garibaldi – ed Enrico Bartelloni, eroe risorgimentale che non vide mai l’unità d’Italia. Bottaio, quarant’anni, lo chiamavano il Gatto perché era un campione quando c’era da fuggire sui tetti. Nel momento della disfatta, però, non scelse la via di tegole e camini e rifiutò il disonore della fuga soprattutto perché vide che in quelle ultime ore la violenza austriaca non si accontentava della mera (ri)presa della città. A una guardia che per strada, a un posto di controllo, gli chiese chi fosse e dove andasse, lui rispose con un insulto per farsi arrestare: fu fucilato tre giorni dopo nella Fortezza Vecchia. Secondo alcune fonti la risposta del Gatto alla guardia fu più o meno la seguente: sono Enrico Bartelloni e vo dove cazzo mi pare.
La classe non solo operaia
A questo spirito che oggi qualcuno definirebbe anti-establishment si aggiunse poi lo sviluppo industriale e capitalistico che arricchì il porto ma non necessariamente la gente di Livorno. Qui il proletariato, spiega Capitano, “fu composto solo in parte da salariate e salariati dell’industria”. Era un prisma molto più variopinto formato da operai, navicellai, artigiani, facchini, portuali, barrocciai, pescatori, ferrovieri tessitrici, cenciaiole, corallaie, impagliatrici di fiaschi, filande e ancora ladri e prostitute: “Disoccupate e disoccupati, sottoproletari e sottoproletarie – sottolinea la storica – che condividevano il destino della marginalità e dello sfruttamento”. Una “composizione di classe eterogenea”, aggiunge, che definì “una realtà popolare difficile da assoggettare nel suo complesso”.
Il libro racconta della nascita in città di associazioni dei lavoratori negli anni Settanta dell’Ottocento – con tanto di benedizione di Bakunin in persona – e della nascita di un radicalismo politico che si traduceva nell’anarchismo e, in forma più istituzionale, nel Psi e nel repubblicanesimo intransigente mazziniano. Negli stessi giorni in cui Milano, nel maggio del 1898, insorse per la guerra del pane, Livorno si organizzava con comizi popolari, cortei in strada e scioperi di almeno 8mila tra lavoratrici e lavoratori, “dalle operaie della filanda di lana alle maestranze del cantiere navale Orlando e della Metallurgica”. Tutti i forni della città e dei sobborghi, ricostruisce Capitano, furono assaltati e svuotati in brevissimo tempo. Il 9 maggio venne dichiarato lo stato d’assedio, ma qui per un caso fortunato non c’erano generali stragisti alla Bava Beccaris.
Gli scioperi si moltiplicarono negli anni dell’inizio del Novecento, anche perché il proletariato livornese – ragiona la storica – si organizzò sul piano della rivendicazione sindacale piuttosto che su quello istituzionale. C’erano la fame e la miseria, non c’erano le case e non c’erano i soldi. A un mondo che si faceva sempre più complesso il fronte di sinistra a Livorno rispose – anche in questo anticipando il ’21 – con divisioni e diffidenze reciproche. E però, racconta Capitano, il Psi livornese negli anni Dieci “fu quasi costretto a spostarsi su posizioni e soprattutto su una retorica politica più massimaliste in risposta ai conflitti interni al partito e alla combattività sociale e operaia”. Ne andava dei voti nelle urne, quei pochi, s’intende, che erano ammessi in un tempo in cui il suffragio universale si vedeva solo col cannocchiale. Una svolta di “intransigenza” voluta – per “realismo politico” puntualizza Capitano – dal riformista Giuseppe Emanuele Modigliani, fratello maggiore del più noto, celebrato in tutto il mondo ben dopo la morte.
L’avversione per i poteri forti? Quasi istintiva
Con una sintesi molto efficace Livorno 1921 mette in fila i segmenti del quadro che accompagnerà Livorno fino al 1921, facendola diventare una delle capitali del Biennio rosso, e molto oltre. Da una parte, spiega Capitano, “il radicamento della tradizione anarcoide e la conseguente tendenza all’azione spontanea con una forte spinta sociale alla radicalizzazione politica”. Dall’altra il “sovversivismo”, cioè un “atteggiamento trasversale di radicale e quasi istintiva avversione nei confronti dell’ordine costituito, dei poteri forti, che già aveva animato il popolo minuto protagonista delle rivolte risorgimentali e di molti episodi rivendicativi e di protesta”. Infine tutto questo, sul piano politico, produce “forti tensioni partitiche che si manifestavano tanto tra le forze della sinistra quanto all’interno dei partiti stessi, specialmente quello socialista”. Alla base e all’interno del quale dopo il 1917 continua a rimbalzare la voce: Facciamo come in Russia.
Socialisti, anarchici, mazziniani, comunisti: l’osmosi di Livorno
In mezzo a questa inquietudine c’è la guerra – quella “Grande” – che impoverisce tutti e figurarsi chi povero lo era già prima. Alle elezioni del ’19 il Psi a Livorno vola a oltre la metà dei voti validi: a livello nazionale è condotto dal moderato Filippo Turati, ma in città c’è un pezzo del partito, più impaziente, che continua a sfiorarsi con l’area anarchica, intransigente, garibaldina, repubblicana. L’osmosi tra tutti questi modi di interpretare la realtà – e la volontà di migliorarla – non è un programma politico: è la vita di tutti i giorni. E ora si aggiungeva il comunismo. “Sono sempre stato un ribelle della società – racconta della sua gioventù il militante Emilio Valesini, citato nel libro – ed è per istinto di classe che andavo dai vari partiti di classe. Molte volte mio fratello Armando, socialista, mi portava al partito e spesso andavo al circolo repubblicano di via Pellegrini. Andavo anche al sindacato anarchico, tutto per farmi un’idea di quali erano le strade da percorrere nella mia vita”. Nacquero gruppi comuni, come Spartacus – formato nel quartiere “ribelle” di Ardenza da studenti – che si ispirava già dal nome alla Lega tedesca guidata da Rosa Luxemburg, ma anche come la “Lega proletaria degli invalidi, mutilati e reduci”, in sostanza Arditi di sinistra. Fino all’organizzazione di una guardia rossa, che con l’aumento degli assalti delle squadracce fasciste e la corrispondenza di amorosi sensi dei bastonatori con le forze dell’ordine e militari, divenne l’ultimo baluardo di fronte alla conquista violenta del potere dei mussoliniani: Livorno sarà l’ultima giunta comunale toscana a cadere nelle mani dei fascisti.
1921: perché Livorno
Per tutto questo dunque la scelta di Livorno come sede del congresso del Psi, quella metà di gennaio del 1921, non fu casuale, spiega Capitano: c’erano “ragioni di sicurezza” più “garantite che altrove dall’amministrazione socialista”, ma anche “dalla specificità del tessuto sociale”. Un anno e mezzo prima della Marcia su Roma “lo squadrismo fascista iniziava a mostrare i denti in modo sempre più violento – sottolinea ancora la storica – ma non riusciva a penetrare politicamente nel sostrato cittadino”. Qui neanche il primo fascismo ebbe le sue vaghe promesse “socialisteggianti”, come le definisce l’autrice, ma piuttosto si presentò subito come “un ottimo dispositivo di conservazione delle strutture di potere”: industriali, ufficiali di carriera, le loro rampanti proli. “In questo mondo dove tutti erano accomunati da un precario vivere alla giornata e sovente in contrasto con la legalità e l’ordinamento borghese tendeva a sfumarsi il confine tra proletari e sottoproletari”. Per questo il fascismo, spalleggiato da imprenditori e autorità, non attecchisce.
E’ l’unità contro le soverchierie dell’alleanza tra fascisti e “padroni” che spinge i comunisti livornesi a disobbedire anche alla linea ufficiale del partito a livello nazionale. E continuano a collaborare con le altre formazioni antifasciste. Nell’aprile 1921 promuovono un “Comitato di difesa proletaria“: dentro ci sono sindacati di tutti gli orientamenti (e i più combattivi sono i ferrovieri) e poi socialisti, comunisti, anarchici, gruppi studenteschi. Due mesi dopo nascono gli Arditi del popolo: è un’organizzazione paramilitare e anche in questo caso ci sono tutti, repubblicani compresi. Il Pci nazionale ribatte innervosito, non vuole che ci si mescoli agli altri partiti, scrive una lettera in cui ribadisce la linea. Ma che cade morta. “Giudicammo questo divieto un vero e proprio tradimento – testimonia nel libro Ilio Paperi, un militante – Lo respingemmo come assurdo e allora il compagno Barontini ci consigliò: quelli che ormai ci sono restino negli Arditi del popolo; ma operate da furbi e non compromettete il partito”.
L’assalto fascista alla città, l’ultima a cadere
Tra il 1921 e il 1922 si moltiplicarono scioperi e scontri di piazza tra forze antifasciste da una parte e fascisti sostenuti da carabinieri, guardie regie, esercito. La resistenza era piegata, mese dopo mese, con perquisizioni, rastrellamenti, fermi, sequestri delle armi di fortuna o artigianali: randelli, coltelli, rivoltelle, fucili da caccia, ordigni. Fu la lunga Battaglia di Livorno, come si intitola un altro volume uscito quest’anno, scritto dallo storico Marco Rossi (ed. Bfs, 178 pp., 16 euro). Cortei, scontri di piazza, scioperi, agguati: solo nell’agosto 1922 Livorno cade per effetto dell’azione delle truppe militari, forti dello stato d’assedio firmato dal governo. Il sindaco Uberto Mondolfi – un professore di Lettere, socialista, allievo di Giovanni Pascoli, amico di Amedeo Modigliani – rassegnò le dimissioni sotto le minacce dei fascisti, guidati tra gli altri da Costanzo Ciano, futuro ministro e presidente di quella specie Camera fascista e futuro Ganascia, soprannome nato dal sarcasmo dissacrante dei suoi concittadini per dare memoria imperitura ai suoi appetiti nei confronti cacciucco, baccalà e soprattutto affari frutto dei suoi mille conflitti d’interesse. “Sono le ore 12 – fu la minaccia di Ganascia a Mondolfi e alla giunta Psi-Pci – Alle due di oggi dovrete avere abbandonato Livorno, in caso contrario vi impiccheremo in piazza. Ci siamo intesi?”. Il marchese fiorentino Dino Perrone Compagni – capo dei fascisti in Toscana, picchiatore protagonista di numerosi assalti squadristi, massone, guerrafondaio – inviò un telegramma al segretario nazionale del Pnf, Michele Bianchi: “Fra le mie battaglie questa più faticosa”.
Barontini
“Operate da furbi e non compromettete il partito” disse il compagno Barontini ai militanti per “aggirare la linea” della dirigenza nazionale e mantenere l’alleanza con le altre forze antifasciste. Ilio Barontini, una specie di eroe romantico, combattente ovunque credeva ci fosse bisogno, un po’ Garibaldi e un po’ il Che. Nel libro di Capitano c’è un lungo capitolo dedicato a lui, che ha incarnato il comunismo “alla livornese”: anarchico, socialista, poi comunista, esule in Francia e poi in Russia, imparò la guerriglia in Cina e prese le armi nella guerra di Spagna – contro i franchisti -, di Etiopia – contro i fascisti -, di Francia – contro i nazisti -, e ovviamente nella Resistenza in Italia, dove fu il comandante partigiano in Emilia Romagna e che liberò Bologna. Il suo “unico scopo di vivere” – dirà – “è sempre stato la ricerca del buono e del giusto”. A Livorno non si dimenticano mai di aggiungere il suo nome di battaglia, Dario.
Fu lui in Francia a organizzare i partigiani comunisti dopo la presa del potere del maresciallo Pétain: gli antinazisti francesi usavano le bombe “Giobbe”, inventate da lui e chiamate così perché era il suo nome di battaglia. E’ in sostanza uno dei capi della Resistenza francese. A Marsiglia, racconta il suo allievo e compagno fidato Giovanni Pesce, fa saltare in aria l’hotel Terminus mentre c’è un banchetto di ufficiali nazisti. A Bologna usa lo stesso meccanismo per far esplodere l’hotel Baglioni, dove si è installata la Kommandantur, il comando militare tedesco. Il dirigente comunista romagnolo Arrigo Boldrini lo definisce “il cavaliere della libertà dei popoli”. Negli ultimi mesi di battaglia contro l’occupazione delle truppe di Hitler arruolava uomini con qualsiasi storia, fregandosene del loro passato di militari mandati in guerra per Franco da Mussolini o in Etiopia a conquistare il Corno d’Africa per quella specie di impero. Ora era tutto cambiato. “È questa ritrovata unità fra tutti noi il fatto più importante che ci assicurerà la vittoria”.
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Cgil, il caso dei due delegati che postavano sui social foto e inni fascisti: le denunce interne al Comitato di garanzia sono state archiviate
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Roma, 2 feb. (Adnkronos) - “Siamo vicini ad Antonio Tajani, alla sua famiglia e soprattutto a suo figlio Filippo, vittima di un malore durante una partita di calcio. Gli auguriamo una pronta guarigione, e che possa tornare presto in campo”. Lo dichiarano i capigruppo della Lega alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - "Esprimo il mio più profondo riconoscimento alla Brigata Sassari per il coraggio, la dedizione e l’alto senso del dovere dimostrato durante tutta la missione Unifil. Ringrazio il generale Messina, con il quale sono sempre rimasta in contatto per essere costantemente informata sullo stato del contingente. I nostri soldati hanno affrontato sfide complesse e delicate, portando avanti il nome dell’Italia con grande professionalità. Il loro impegno ha garantito la stabilità in una regione così fragile, e sono fiera di come abbiano rappresentato la nostra Nazione". Lo ha affermato la deputata di Fratelli d'Italia Barbara Polo, componente della commissione Difesa, al rientro del contingente della Brigata Sassari.
"Da sarda, -ha aggiunto- non posso che essere estremamente orgogliosa nel vedere i miei concittadini impegnati con tanto valore nelle operazioni internazionali. La Brigata Sassari è il fiore all’occhiello del nostro esercito, una realtà che continua a distinguersi per preparazione e coraggio”.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - "Ci mancavano i sedicenti comitati civici che spalleggiano gli occupanti abusivi di immobili a rendere sempre più invivibile il quartiere Esquilino, uno dei più belli di Roma da tempo in mano ad immigrati clandestini e bande criminali. Ne ha fatto le spese un bravo giornalista come Luca Telese aggredito per aver difeso i presidi di legalità che dopo le denunce della Lega le istituzioni stanno predisponendo. Telese chiamato ad un’assemblea pubblica da un sedicente Polo Civico ha avuto l'ardire di affermare che cancellate di protezione dei luoghi di socialità non sono poi da demonizzare. Per difendere la possibilità di vivere in pace e nella legalità all'Esquilino di Roma, come in tutte le periferie d'Italia, è necessario che venga subito definitivamente approvato il ddl sicurezza”. Lo afferma il deputato della Lega ed ex magistrato Simonetta Matone.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - “Nella loro foga alla ricerca del complotto, di qualcuno su cui scaricare le proprie responsabilità, di uno spauracchio a cui assegnare colpe per nascondere le inadeguatezze del governo Meloni, i colleghi di Fratelli d’Italia hanno nuovamente toccato inesplorate vette di contraddizione. L’ultimo attacco frontale è stato riservato a Gimbe e al suo presidente Cartabellotta, colpevole di aver detto con dati inequivocabili che il decreto dell’Esecutivo sulle liste d’attesa è fermo al palo e che solo uno dei sei decreti attuativi è stato già approvato". Lo afferma Andrea Quartini, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Affari sociali della Camera e coordinatore del Comitato politico salute e inclusione sociale del M5S.
"Oltre a usare parole estremamente gravi nei confronti di chi porta avanti con serietà e professionalità un preziosissimo lavoro scientifico a tutela della sanità, il senatore Zaffini -aggiunge l'esponente pentastellato- ha però di fatto confermato i ritardi denunciati da Cartabellotta, sebbene secondo lui siano in realtà tempi record. Una contraddizione decisamente bizzarra. E nel frattempo, i medici di medicina generale operano come meglio credono e la proposta di Forza Italia in merito è ancora ben lontana dal concretizzarsi".
"Al presidente Cartabellotta -conclude Quartini- va tutta la mia solidarietà, visto che ultimamente è stato identificato come avversario politico, alla stregua di una forza di opposizione, come persino Bruno Vespa aveva avuto l’indecenza di dire. Questo attacco scomposto, in ogni caso, non fa che confermare la linea di questa maggioranza: è sempre colpa degli altri. Dai magistrati, a coloro che distribuiscono la benzina, fino a Gimbe”.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - "Il nemico del giorno del governo è la Fondazione Gimbe e in particolare il suo presidente Nino Cartabellotta, accusato da esponenti di maggioranza di essere un bugiardo che falsifica i dati perché ‘cavalier servente’ e comunista. Affermazioni di una gravità inaudita contro un organismo indipendente e autorevole come Gimbe, che fa un grande lavoro di raccolta e verifica dei dati sanitari. La colpa di Cartabellotta? Aver fatto notare che a sei mesi dall’approvazione del decreto liste d’attesa mancano ancora cinque dei sei decreti attuativi, cosa tra l’altro confermata dalla stessa maggioranza". Lo afferma Mariolina Castellone, senatrice M5S e vicepresidente del Senato.
"Ancora una volta, questa destra cerca di trasferire su altri le colpe della propria incapacità e si produce in un costante bullismo contro professionisti che fanno il proprio lavoro, cercando di intimorirli. Per fortuna -conclude l'esponente pentastellata- ci sono i numeri a parlare e a smentire la propaganda di governo. E ci siamo noi a tutelare le voci libere e indipendenti”.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - “Quello delle liste di attesa è un tema che riguarda non solo la salute ma anche la dignità della persona. Un tema che richiede senso di responsabilità e che non riscontro nelle dichiarazioni sparate a raffica da esponenti di Pd, 5 stelle e sinistra. Gli stessi che ci hanno consegnato un Servizio sanitario nazionale allo sfascio e per il quale ci stiamo adoperando per rimetterlo in sesto. Il collega Cartabellotta e la Fondazione Gimbe meritano rispetto, in quanto sono giustificati per la mancata conoscenza del lavoro che il Governo ha messo in campo sui decreti attuativi. Non posso al contrario giustificare i colleghi senatori che siedono nella commissione Sanità del Senato presieduta dal presidente Zaffini o i presidenti di Regione che prendono parte alla Conferenza Stato-Regioni". Lo afferma il senatore Ignazio Zullo, capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Sanità in Senato.
"Se non sanno -aggiunge- devo purtroppo arguire che dormono mentre se, come penso, sanno e attaccano il presidente Zaffini, che ha solo voluto puntualizzare il lavoro del Governo in risposta alle valutazioni della Fondazione Gimbe, è grave perché si tratta di un comportamento in grave mala fede. Si può anche non conoscere quanto si stia facendo sul tema, ma il senso di responsabilità vuole che prima di sparare a salve ci si informi e ci si documenti . In questo modo si prenderebbe facilmente atto che quanto annunciato dalla Fondazione Gimbe non è proprio puntuale perché -e lo ha spiegato bene il presidente Zaffini- la situazione riguardo ai decreti attuativi è la seguente: Criteri di funzionamento della piattaforma nazionale e regionali delle liste d’attesa: Il decreto è stato trasmesso alla Conferenza Stato-Regioni. In attesa del parere della Conferenza Stato Regioni alla quale è stato inviato il 13 settembre 2024".
"Funzionamento della piattaforma nazionale di monitoraggio in coerenza con il modello di classificazione e stratificazione della popolazione, risulta ‘fatto’. Poteri sostitutivi del ministero della Salute in caso di inottemperanza delle Regioni e il rispetto agli obiettivi della legge: decreto trasmesso in Conferenza Stato-Regioni il 6 novembre 2024. Linee di indirizzo per l’attivazione dei sistemi di disdetta da parte dei Cup: il decreto è in fase di definizione da attuare con il Piano nazionale delle liste d’attesa in lavorazione predisposto dalla Direzione generale della Programmazione sanitaria già condiviso con Regioni e Mef. Metodologia per la definizione del fabbisogno di personale del Ssn (superamento tetti di spesa): il decreto è in via di ultimazione. Il Piano di azione per rafforzare i servizi sanitari e sociosanitari (nelle Regioni del Sud destinatarie dei fondi del Piano nazionale Equità e salute): decreto trasmesso alla conferenza Stato-Regioni il giorno 8 gennaio 2025".
"In questo confronto tra Zaffini e i nostri avversari politici -conclude Zullo- si può cogliere la differenza tra noi e loro: noi lavoriamo per mettere riparo agli sfasci che ci hanno lasciato in eredità, loro non sanno andare oltre l’irresponsabile e deleteria polemica sterile, dannosa dell’immagine del nostro Servizio sanitario nazionale”.
Roma, 2 feb. (Adnkronos) - "La Fondazione Gimbe è un ente autonomo e indipendente che ormai da decenni studia e documenta i dati più importanti del nostro Servizio sanitario nazionale. Il suo presidente non ha mai fatto sconti a nessun Governo e a nessuna parte politica come dimostrano chiaramente i Rapporti che annualmente la Fondazione offre al dibattito e ai decisori politici. Ma forse dà fastidio a chi oggi è al governo che proprio dai rapporti Gimbe emerga ciò che la maggioranza si ostina a negare: cioè che stiamo riducendo le risorse per finanziare il Ssn in proporzione al Pil e che non si stanno dando risposte adeguate alla gravità della crisi che attraversa la sanità pubblica in Italia". Lo afferma Marina Sereni, responsabile Salute e sanità nella segreteria nazionale Pd.
"Cercare di minare la credibilità di un professionista serio e stimato ovunque perché non piacciono i numeri -peraltro tratti tutti da fonti ufficiali- su cui fa le analisi -aggiunge- è tipico di una destra illiberale e arrogante. Per questo voglio esprimere al presidente Cartabellotta la mia solidarietà e confermare la stima e l’apprezzamento nei confronti del lavoro prezioso della Fondazione Gimbe".