Livorno non fu un incidente della Storia. La trasformazione in partito del comunismo italiano, quelle poche centinaia di passi tra il teatro Goldoni e lo scalcinato teatro San Marco che fecero la storia d’Italia, non furono frutto del caso. Se ai giorni nostri l’impronta di Livorno la rossa assomiglia ai giorni nostri a uno stampino per ritratti di comodo, approfondire la strada che portò al 1921 suggerisce che non poteva che iniziare lì una storia politica, sociale e umana che sarebbe durata settant’anni. Una città nella quale il comunismo è diventato la declinazione inevitabile di un processo dai tanti nomi, dalle tante facce e dalle tante idee iniziato molto tempo prima, originato dall’humus dai tanti ingredienti dell’ex porto franco, rifugio di tutti gli ultimi d’Europa: gli ebrei perseguitati in Spagna, gli ugonotti cacciati dalla Francia da Luigi XIV e poi schiavi in fuga, criminali con carichi pendenti, debitori incalliti e bancarottieri, ladri e prostitute che con lo scudo delle Leggi Livornine videro garantita la loro libertà. Perché, dunque, fu proprio Livorno a veder nascere il Partito Comunista d’Italia? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Livorno 1921 – Dentro e oltre la classe operaia (4Punte edizioni, 144 p., 15 euro), di Olimpia Capitano, storica, ricercatrice, studiosa di global labour history, collaboratrice de ilfattoquotidiano.it.

Popolare, ribelle, sovversiva, libertaria
Livorno comunista è il 1921, certo, ma è quasi di più ciò che c’è prima, sostiene Capitano. “Un prima – scrive – che del comunismo livornese è stato culla e matrice. Un prima in cui ha preso forma un’esperienza del tutto dissonante rispetto alle rappresentazioni posteriori” e cioè “qualcosa di completamente diverso dalla narrazione settaria di un partito di quadri, chiuso e indisponibile a un dialogo più largo”. Gli aggettivi che nello sviluppo del libro più di frequente sono accostati alla storia della città girano sempre intorno a libertaria, spontanea, popolare. Insomma, sottolinea Capitano, la città rossa era tale “soprattutto in quanto popolare, ribelle, sovversiva, aliena a qualsivoglia tipo di autorità costituita e, in un secondo momento, comunista”. Con quelle origini da melting pot volute consapevolmente dai Medici alla fine del Cinquecento per puntare sul nuovo porto del Granducato, “fu naturale per la città trasformarsi nel simbolo del ribellismo anarcopopolare”. Una città nata sulle spalle umili di “senza classe”, scrive Capitano. Nient’affatto facile mescolare culture, religioni, appartenenze, anzi: era una popolazione contraddistinta da “enormi differenze, contraddizioni e conflittualità, ma accomunata da una condizione di forte subalternità rispetto al ristretto nucleo sociale dominante”. Per questo si definì “una comunità storicamente poco incline a sottomettersi a un’unica cultura o all’autorità di governo”.

Ai tempi dei moti
Di rivolte è piena la (giovane) vita di Livorno. Ci volle del bello e del buono, per esempio, agli austriaci nel 1849 per avere ragione di qualche migliaio di ribelli che qui e a Firenze – un anno prima dell’avventurosa Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini – non si accontentarono della Costituzione concessa da Leopoldo II di Lorena, granduca di Toscana, e ottennero un governo democratico, il primo in Italia, sebbene durò il tempo di un’idea. Venne Giuseppe Mazzini in persona ad annunciare la fuga del granduca (format non nuovo tra i sovrani). Agli austriaci questo intenso odore di monarchi ribaltati dal seggiolone vicino a casa propria non piaceva per niente e scesero in forze sulla costa toscana: per ogni combattente livornese si contavano dieci austriaci (per non parlare dello scarto tra gli armamenti). Servirono due giorni, il 10 e l’11 di maggio, perché le truppe austriache potessero avere ragione delle barricate livornesi. Al comando dei rivoltosi c’erano tra gli altri Andrea Sgarallino – che poi sarà tra i molti concittadini che ingrosseranno le file dei Mille di Garibaldi – ed Enrico Bartelloni, eroe risorgimentale che non vide mai l’unità d’Italia. Bottaio, quarant’anni, lo chiamavano il Gatto perché era un campione quando c’era da fuggire sui tetti. Nel momento della disfatta, però, non scelse la via di tegole e camini e rifiutò il disonore della fuga soprattutto perché vide che in quelle ultime ore la violenza austriaca non si accontentava della mera (ri)presa della città. A una guardia che per strada, a un posto di controllo, gli chiese chi fosse e dove andasse, lui rispose con un insulto per farsi arrestare: fu fucilato tre giorni dopo nella Fortezza Vecchia. Secondo alcune fonti la risposta del Gatto alla guardia fu più o meno la seguente: sono Enrico Bartelloni e vo dove cazzo mi pare.

La classe non solo operaia
A questo spirito che oggi qualcuno definirebbe anti-establishment si aggiunse poi lo sviluppo industriale e capitalistico che arricchì il porto ma non necessariamente la gente di Livorno. Qui il proletariato, spiega Capitano, “fu composto solo in parte da salariate e salariati dell’industria”. Era un prisma molto più variopinto formato da operai, navicellai, artigiani, facchini, portuali, barrocciai, pescatori, ferrovieri tessitrici, cenciaiole, corallaie, impagliatrici di fiaschi, filande e ancora ladri e prostitute: “Disoccupate e disoccupati, sottoproletari e sottoproletarie – sottolinea la storica – che condividevano il destino della marginalità e dello sfruttamento”. Una “composizione di classe eterogenea”, aggiunge, che definì “una realtà popolare difficile da assoggettare nel suo complesso”.

Il libro racconta della nascita in città di associazioni dei lavoratori negli anni Settanta dell’Ottocento – con tanto di benedizione di Bakunin in persona – e della nascita di un radicalismo politico che si traduceva nell’anarchismo e, in forma più istituzionale, nel Psi e nel repubblicanesimo intransigente mazziniano. Negli stessi giorni in cui Milano, nel maggio del 1898, insorse per la guerra del pane, Livorno si organizzava con comizi popolari, cortei in strada e scioperi di almeno 8mila tra lavoratrici e lavoratori, “dalle operaie della filanda di lana alle maestranze del cantiere navale Orlando e della Metallurgica”. Tutti i forni della città e dei sobborghi, ricostruisce Capitano, furono assaltati e svuotati in brevissimo tempo. Il 9 maggio venne dichiarato lo stato d’assedio, ma qui per un caso fortunato non c’erano generali stragisti alla Bava Beccaris.

Gli scioperi si moltiplicarono negli anni dell’inizio del Novecento, anche perché il proletariato livornese – ragiona la storica – si organizzò sul piano della rivendicazione sindacale piuttosto che su quello istituzionale. C’erano la fame e la miseria, non c’erano le case e non c’erano i soldi. A un mondo che si faceva sempre più complesso il fronte di sinistra a Livorno rispose – anche in questo anticipando il ’21 – con divisioni e diffidenze reciproche. E però, racconta Capitano, il Psi livornese negli anni Dieci “fu quasi costretto a spostarsi su posizioni e soprattutto su una retorica politica più massimaliste in risposta ai conflitti interni al partito e alla combattività sociale e operaia”. Ne andava dei voti nelle urne, quei pochi, s’intende, che erano ammessi in un tempo in cui il suffragio universale si vedeva solo col cannocchiale. Una svolta di “intransigenza” voluta – per “realismo politico” puntualizza Capitano – dal riformista Giuseppe Emanuele Modigliani, fratello maggiore del più noto, celebrato in tutto il mondo ben dopo la morte.

L’avversione per i poteri forti? Quasi istintiva
Con una sintesi molto efficace Livorno 1921 mette in fila i segmenti del quadro che accompagnerà Livorno fino al 1921, facendola diventare una delle capitali del Biennio rosso, e molto oltre. Da una parte, spiega Capitano, “il radicamento della tradizione anarcoide e la conseguente tendenza all’azione spontanea con una forte spinta sociale alla radicalizzazione politica”. Dall’altra il “sovversivismo”, cioè un “atteggiamento trasversale di radicale e quasi istintiva avversione nei confronti dell’ordine costituito, dei poteri forti, che già aveva animato il popolo minuto protagonista delle rivolte risorgimentali e di molti episodi rivendicativi e di protesta”. Infine tutto questo, sul piano politico, produce “forti tensioni partitiche che si manifestavano tanto tra le forze della sinistra quanto all’interno dei partiti stessi, specialmente quello socialista”. Alla base e all’interno del quale dopo il 1917 continua a rimbalzare la voce: Facciamo come in Russia.

Socialisti, anarchici, mazziniani, comunisti: l’osmosi di Livorno
In mezzo a questa inquietudine c’è la guerra – quella “Grande” – che impoverisce tutti e figurarsi chi povero lo era già prima. Alle elezioni del ’19 il Psi a Livorno vola a oltre la metà dei voti validi: a livello nazionale è condotto dal moderato Filippo Turati, ma in città c’è un pezzo del partito, più impaziente, che continua a sfiorarsi con l’area anarchica, intransigente, garibaldina, repubblicana. L’osmosi tra tutti questi modi di interpretare la realtà – e la volontà di migliorarla – non è un programma politico: è la vita di tutti i giorni. E ora si aggiungeva il comunismo. “Sono sempre stato un ribelle della società – racconta della sua gioventù il militante Emilio Valesini, citato nel libro – ed è per istinto di classe che andavo dai vari partiti di classe. Molte volte mio fratello Armando, socialista, mi portava al partito e spesso andavo al circolo repubblicano di via Pellegrini. Andavo anche al sindacato anarchico, tutto per farmi un’idea di quali erano le strade da percorrere nella mia vita”. Nacquero gruppi comuni, come Spartacus – formato nel quartiere “ribelle” di Ardenza da studenti – che si ispirava già dal nome alla Lega tedesca guidata da Rosa Luxemburg, ma anche come la “Lega proletaria degli invalidi, mutilati e reduci”, in sostanza Arditi di sinistra. Fino all’organizzazione di una guardia rossa, che con l’aumento degli assalti delle squadracce fasciste e la corrispondenza di amorosi sensi dei bastonatori con le forze dell’ordine e militari, divenne l’ultimo baluardo di fronte alla conquista violenta del potere dei mussoliniani: Livorno sarà l’ultima giunta comunale toscana a cadere nelle mani dei fascisti.

1921: perché Livorno
Per tutto questo dunque la scelta di Livorno come sede del congresso del Psi, quella metà di gennaio del 1921, non fu casuale, spiega Capitano: c’erano “ragioni di sicurezza” più “garantite che altrove dall’amministrazione socialista”, ma anche “dalla specificità del tessuto sociale”. Un anno e mezzo prima della Marcia su Roma “lo squadrismo fascista iniziava a mostrare i denti in modo sempre più violento – sottolinea ancora la storica – ma non riusciva a penetrare politicamente nel sostrato cittadino”. Qui neanche il primo fascismo ebbe le sue vaghe promesse “socialisteggianti”, come le definisce l’autrice, ma piuttosto si presentò subito come “un ottimo dispositivo di conservazione delle strutture di potere”: industriali, ufficiali di carriera, le loro rampanti proli. “In questo mondo dove tutti erano accomunati da un precario vivere alla giornata e sovente in contrasto con la legalità e l’ordinamento borghese tendeva a sfumarsi il confine tra proletari e sottoproletari”. Per questo il fascismo, spalleggiato da imprenditori e autorità, non attecchisce.

E’ l’unità contro le soverchierie dell’alleanza tra fascisti e “padroni” che spinge i comunisti livornesi a disobbedire anche alla linea ufficiale del partito a livello nazionale. E continuano a collaborare con le altre formazioni antifasciste. Nell’aprile 1921 promuovono un “Comitato di difesa proletaria“: dentro ci sono sindacati di tutti gli orientamenti (e i più combattivi sono i ferrovieri) e poi socialisti, comunisti, anarchici, gruppi studenteschi. Due mesi dopo nascono gli Arditi del popolo: è un’organizzazione paramilitare e anche in questo caso ci sono tutti, repubblicani compresi. Il Pci nazionale ribatte innervosito, non vuole che ci si mescoli agli altri partiti, scrive una lettera in cui ribadisce la linea. Ma che cade morta. “Giudicammo questo divieto un vero e proprio tradimento – testimonia nel libro Ilio Paperi, un militante – Lo respingemmo come assurdo e allora il compagno Barontini ci consigliò: quelli che ormai ci sono restino negli Arditi del popolo; ma operate da furbi e non compromettete il partito”.

L’assalto fascista alla città, l’ultima a cadere
Tra il 1921 e il 1922 si moltiplicarono scioperi e scontri di piazza tra forze antifasciste da una parte e fascisti sostenuti da carabinieri, guardie regie, esercito. La resistenza era piegata, mese dopo mese, con perquisizioni, rastrellamenti, fermi, sequestri delle armi di fortuna o artigianali: randelli, coltelli, rivoltelle, fucili da caccia, ordigni. Fu la lunga Battaglia di Livorno, come si intitola un altro volume uscito quest’anno, scritto dallo storico Marco Rossi (ed. Bfs, 178 pp., 16 euro). Cortei, scontri di piazza, scioperi, agguati: solo nell’agosto 1922 Livorno cade per effetto dell’azione delle truppe militari, forti dello stato d’assedio firmato dal governo. Il sindaco Uberto Mondolfi – un professore di Lettere, socialista, allievo di Giovanni Pascoli, amico di Amedeo Modigliani – rassegnò le dimissioni sotto le minacce dei fascisti, guidati tra gli altri da Costanzo Ciano, futuro ministro e presidente di quella specie Camera fascista e futuro Ganascia, soprannome nato dal sarcasmo dissacrante dei suoi concittadini per dare memoria imperitura ai suoi appetiti nei confronti cacciucco, baccalà e soprattutto affari frutto dei suoi mille conflitti d’interesse. “Sono le ore 12 – fu la minaccia di Ganascia a Mondolfi e alla giunta Psi-Pci – Alle due di oggi dovrete avere abbandonato Livorno, in caso contrario vi impiccheremo in piazza. Ci siamo intesi?”. Il marchese fiorentino Dino Perrone Compagni – capo dei fascisti in Toscana, picchiatore protagonista di numerosi assalti squadristi, massone, guerrafondaio – inviò un telegramma al segretario nazionale del Pnf, Michele Bianchi: “Fra le mie battaglie questa più faticosa”.

Barontini

“Operate da furbi e non compromettete il partito” disse il compagno Barontini ai militanti per “aggirare la linea” della dirigenza nazionale e mantenere l’alleanza con le altre forze antifasciste. Ilio Barontini, una specie di eroe romantico, combattente ovunque credeva ci fosse bisogno, un po’ Garibaldi e un po’ il Che. Nel libro di Capitano c’è un lungo capitolo dedicato a lui, che ha incarnato il comunismo “alla livornese”: anarchico, socialista, poi comunista, esule in Francia e poi in Russia, imparò la guerriglia in Cina e prese le armi nella guerra di Spagna – contro i franchisti -, di Etiopia – contro i fascisti -, di Francia – contro i nazisti -, e ovviamente nella Resistenza in Italia, dove fu il comandante partigiano in Emilia Romagna e che liberò Bologna. Il suo “unico scopo di vivere” – dirà – “è sempre stato la ricerca del buono e del giusto”. A Livorno non si dimenticano mai di aggiungere il suo nome di battaglia, Dario.

Fu lui in Francia a organizzare i partigiani comunisti dopo la presa del potere del maresciallo Pétain: gli antinazisti francesi usavano le bombe “Giobbe”, inventate da lui e chiamate così perché era il suo nome di battaglia. E’ in sostanza uno dei capi della Resistenza francese. A Marsiglia, racconta il suo allievo e compagno fidato Giovanni Pesce, fa saltare in aria l’hotel Terminus mentre c’è un banchetto di ufficiali nazisti. A Bologna usa lo stesso meccanismo per far esplodere l’hotel Baglioni, dove si è installata la Kommandantur, il comando militare tedesco. Il dirigente comunista romagnolo Arrigo Boldrini lo definisce “il cavaliere della libertà dei popoli”. Negli ultimi mesi di battaglia contro l’occupazione delle truppe di Hitler arruolava uomini con qualsiasi storia, fregandosene del loro passato di militari mandati in guerra per Franco da Mussolini o in Etiopia a conquistare il Corno d’Africa per quella specie di impero. Ora era tutto cambiato. “È questa ritrovata unità fra tutti noi il fatto più importante che ci assicurerà la vittoria”.

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