Con un presente imprigionato nel limbo della mediocrità, il club catalano si è rifugiato in una comfort zone che racconta di campioni passati ma dai contorni ancora brillanti. D'altronde, i successi della squadra sono sempre andati di pari passo con l’adesione e con l’aderenza a un’idea specifica di calcio. Un solipsismo che non sembra poter essere superato
Lo sfasamento temporale inizia a essere evidente. Perché per andare avanti bisogna travasare il passato nel futuro. Un paradosso solo apparente che a Barcellona sembra essere diventato dogma indiscutibile. Nel suo momento più buio, con un presente imprigionato nel limbo della mediocrità, il club catalano si è rifugiato in una comfort zone che racconta di campioni passati ma dai contorni ancora brillanti, di successi più o meno lontani ma attualmente irripetibili. Per guidare la rifondazione, la scorsa estate, era stato chiamato Ronald Koeman, uno che con la maglia del Barcellona aveva vinto la Champions League. Ma nel 1992. Dopo averlo avuto come allenatore al Valencia, giusto per qualche mese, David Albelda aveva detto: “Spero che un giorno Koeman diventi il tecnico del Barça, così almeno la Liga sarà più combattuta”. Una frase imbevuta di veleno che si è trasformata in sentenza. Anche se in realtà la lista delle attenuanti per l’olandese è piuttosto lunga.
Ora, dopo un angosciante nono posto in classifica, il Barcellona che è stato costretto a regalare Messi al PsgG ha deciso di cambiare ancora. Arrivederci Koeman, benvenuto Xavi. Uno che con la maglia del club aveva vinto la Champions League. Per 4 volte. L’ultima nel 2015. Una scelta che ha reso permanente l’effetto revival, fino a elevarlo a sistema. Perché pochi giorni dopo il club ha annunciato un altro acquisto. Anzi, un altro ritorno. Dani Alves è diventato un calciatore del Barça per la seconda volta. Anche se cinque anni e mezzo prima aveva lasciato il club per cercare gloria alla Juventus. Il primo acquisto dell’era Guardiola si è trasformato nel primo acquisto dell’era Xavi. La storia è ciclica, certo. Ma ora forse si sta esagerando.
Il terzino trentottenne si è presentato al Camp Nou con le infradito. Proprio come aveva fatto tredici anni prima. Le sue parole sono state un inno alla restaurazione di un Ancien Régime ormai dissolto. Ha parlato di “ritorno alla vittoria”. Ha raccontato la sua intenzione di “ricostruire quel Barcellona che avevamo amato“. Parole che non sembrano tenere in considerazione lo scorrere del tempo, che sembrano ignorare quella polvere che si è sedimentata nell’ultimo periodo. Enric Masip, consigliere del club, si è espresso sulla questione. “L’eccitazione generata da Dani Alves è stata sorprendente – ha detto – È come quando Jordan è tornato a 42 anni ai Wizards”.
I media spagnoli si sono schierati compatti sulla questione. Il ritorno del brasiliano sarebbe un affare. Ogni dissenso non è tollerato. Perché Alves porterebbe doti generiche ma fondamentali: esperienza fuori e dentro il campo. E soprattutto esperienza. “Con lui in campo – giura Marca – il Celta Vigo non sarebbe riuscito a recuperare da 0-3 nell’ultima partita della Liga”. Una frase che è un po’ ipotesi e un po’ speranza. Ma che gira intorno al vero problema. Il ritorno del brasiliano è soprattutto una toppa stiracchiata su un buco lasciato aperto proprio dalla sua partenza. Per sostituire Dani Alves il Barcellona ha alternato 9 giocatori (Douglas, Aleix Vidal, Sergi Roberto, Semedo, Wague, Dest, Emerson e Mingueza) e speso 93 milioni di euro. Senza riuscirci.
Uno scialacquio che racconta piuttosto bene la cosmogonia dei problemi finanziari del club. Ma potrebbe non essere finita qui. Le voci di mercato parlano di un interessamento del Barça per Thiago Alcantara, ex apostolo di Pep Guardiola che, dopo essersi smarrito a Liverpool, vestirebbe volentieri i panni di figliol prodigo. L’eterno ritorno è stato profetizzato l’altro giorno anche da Joan Laporta. “Il ritorno di Messi e Iniesta? Non lo escludo – ha spiegato – Tutti i culer, oggi Dani Alves, domani magari altri, sono personalità che hanno fatto grande il club e Leo e Andrés sono due giocatori spettacolari. Non posso prevedere il futuro, stanno ancora giocando, ma sono stati grandi al Barça, hanno fatto grande il club e lo sappiamo. Sono giocatori con un contratto in vigore con altri club e va rispettato, ma nella vita non si sa mai”.
Il Barcellona è un club che ha costruito la propria identità su un mucchio di quattrini. Ma soprattutto su un’idea specifica di calcio. I successi della squadra sono andati di pari passo con l’adesione e con l’aderenza a quel principio. Fino a quando non è diventato una coperta di Linus. Solo nell’Ajax la fedeltà a un’Idea è diventata altrettanto importante nella valutazione non solo di un tecnico, ma anche delle sue vittorie. Nel nuovo millennio il Barcellona si è affidato a 12 tecnici diversi. Due (Van Gaal e Rijkaard) erano legati alla tradizione dell’Ajax. Altri sette hanno giocato nel club azulgrana. E hanno plasmato lì la loro identità calcistica. I tecnici legati alla stessa tradizione hanno conquistato 33 trofei. Gli altri appena uno. Un solipsismo che non sembra poter essere superato. D’altra parte allenatori e calciatori passano. Ma gli ideali restano.