Sono passati 195 anni dal giorno della nascita dell’autore di “Pinocchio” ma questo libro scritto a fine Ottocento e lo pseudonimo dello scrittore, Collodi, restano indelebili nella storia di ciascuno di noi ma anche nel mondo intero.
Carlo Lorenzini, questo il vero nome del papà di Pinocchio, alla pari del danese Hans Christian Andersen (nato 21 anni prima del “nostro”) hanno saputo, attraverso la parola scritta, entrare nella storia della letteratura, della pedagogia e persino della psicologia. Entrambi noti, non solo ai bambini ma anche al grande pubblico, hanno avuto fortuna non solo in patria. Unica differenza è che il danese è molto più celebrato nel suo Paese rispetto a Collodi in Italia: è facile, infatti, trovare statuine souvenir dello scrittore di Odense in tutta la Danimarca mentre non ho mai visto nulla di simile per Lorenzini.
Non solo. Spesso si parla di Collodi (anche a scuola) solo per il suo celebre burattino; ma lo scrittore toscano è stato ben altro: esperto di musica e di giornalismo umoristico (scomparso oggi in Italia) ma soprattutto firma di spicco de Il giornale dei bambini, pioniere dei periodici italiani per ragazzi, dove iniziò a scrivere “Le avventure di Pinocchio” a puntate per poi pubblicarle nel 1883 in un unico volume. Oggi varrebbe la pena riscoprire tutte le risorse di Collodi andando a rileggere anche i famosi “Giornali dei bambini”.
Va detto, tuttavia, che Pinocchio è arrivato in tutto il mondo diventando un simbolo, un marchio, una rappresentazione. In alcuni luoghi basta dire “Pinocchio” per capire che si ha a che fare con la cultura italiana. In India è famosissima la pizza Pinocchio; in Germania vantano persino un simpatico Pinocchio Park; in Brasile lo chiamano Pinoquio; in America esiste chi cerca di capire come si allunghi quel naso e in Canada ma anche in Italia c’è chi va al bar Pinocchio; in Danimarca vendono i tappeti Pinocchio che sono fra i più desiderati; negli Stati Uniti hanno prodotto il film horror Bad Pinocchio; in Olanda vanno di moda le scarpe Pinocchio; in Spagna ci sono adulti che giocano nel Pinocchio Poker club; in Belgio vanno a ruba i puzzle che raffigurano la favola; i polacchi hanno i negozi per bambini a nome Pinokkio e in Egitto vendono i mobili parlanti a marchio Pinocchio. Infine c’è chi lo studia all’università, come a Urbino o alla Oxford University.
Del burattino di legno hanno parlato Dario Fo, Benito Jacovitti, Carmelo Bene, Italo Calvino, Indro Montanelli e ha ispirato i film di Luigi Comencini, Walt Disney e Roberto Benigni. Non ultima l’opera di Gianni Rodari dedicata al “collega”: La filastrocca di Pinocchio, pubblicata per la prima volta a puntate negli anni Cinquanta e costruita attraverso disegni commentati da rime baciate, rappresenta l’omaggio dello scrittore di Omegna a uno dei personaggi più amati dai ragazzi di tutto il mondo. Fedele al romanzo ma capace di avvicinarlo alla sensibilità moderna dei bambini, abituati al racconto per immagini, essa continua da decenni a vincere immancabilmente la sua scommessa: quella di avvicinare anche i lettori più piccoli al capolavoro di Collodi.
“Pinocchio” resterà nella storia perché sa ancora definire (essenziale per i bambini) in maniera netta i buoni e i cattivi. Pinocchio è fondamentalmente buono (ha un buon cuore), ingenuo e innocente, ma cade spesso nella tentazione di farsi trascinare da brutte compagnie e, se gli si chiedono spiegazioni, è incline alla menzogna. A causa di queste caratteristiche si ritrova spesso nei guai, dai quali riesce però a cavarsi sempre, anche se con molta difficoltà. Mi piace ricordare un’interpretazione alternativa che viene da Gian Luca Pierotti, che vede nel romanzo e nella figura di Pinocchio un’analogia con certi Vangeli apocrifi che narrano un’infanzia turbolenta di Gesù.