Né capitalismo, né comunismo, ma terza via. Il volto meno noto di Maradona è politico.
Guevarista, peronista, patriota e socialista, ha passato una vita intera schierandosi coi deboli, contro l’imperialismo dei poteri forti. Dalle baraccopoli di Lanus ai viaggi militanti a Cuba, il mito del riscatto l’ha sostenuto alla sinistra del calcio, strumento e simbolo di una missione affrancatrice condotta in Sudamerica come in Occidente, in nome di popoli e libertà: “Non si tratta un uomo come mercanzia”.
Testimonial degli indifesi, quand’era al Napoli rifiutò la Juve degli Agnelli e il passaporto statunitense, girate le spalle a faraonici contratti di neoliberiste multinazionali giapponesi e americane, roba da più di 100 milioni di dollari: “Mi dispiace, non posso accettare”.
Sindacalista contro la Fifa, corruzione e inciuci, odiava Blatter e Havelange, bollato Matarrese (Figc) come “un mafioso”, decenni prima l’affondo contro l’Uefa di Michel Platini (“non voglio più vedere partire truccate”) e la SuperLega degli oligarchi dal profitto senz’anima: “Voglio continuare a dire la verità fino all’ultimo, perché non mi piace l’ingiustizia”.
Per i sinistri dribbling a braccetto coi terzomondisti, finì nel mirino della Cia, mentre Pelè posava col potentissimo Henry Kissinger, negli archivi del terrore per l’Operazione Condor. “Come Maradona solo Muhammad Ali sotto questo punto di vista”.
Drogato, dopato e perenne faccia da indios scugnizzo, stava coi latinoamericani per l’indipendenza, perché i mondiali ’78 di Videla furono solo uno spot alla dittatura: “faccio loro da portavoce”, come un megafono riferì Diego sui leader Correa (Ecuador), Morales (Bolivia) e Ortega (Nicaragua). “E’ un rivoluzionario, quindi un mio amico”, dal Venezuela lo adottò Hugo Chavez.
Fraterno del figlio di Ernesto Che Guevara (“lo considero un membro di famiglia”), in Fidel Castro aveva trovato un padre, tanto da imprimersene il barbuto volto sul polpaccio sinistro, perpendicolare alla mano de Dios con cui in Messico purgò l’Inghilterra nell’86, militarizzate le Falkland. Il comandante cubano ne aveva intuito il potenziale da erede politico, “colui che avrebbe potuto, sfruttando la sua notorietà, portare la causa antimperialista fuori dai confini del Sudamerica. Un personaggio che i media non avrebbero potuto oscurare e che avrebbe parlato a milioni di persone”.
Mondiali in Brasile, sul canale televisivo dei ribelli Telesur, Maradona condusse la trasmissione De Zurda (di sinistro), intervistati persino i cinque agenti dei servizi segreti castristi prigionieri a Miami e un bambino di soli sei anni conteso tra Cuba e gli Stati Uniti: “Arriveremo in tutte le case, presenteremo il Sudamerica come non hanno mai fatto gli altri”.
Esegeta di Julian Assange (“recluso un difensore della verità”), pugno chiuso e allusiva maglietta con svastica, con Chavez e Castro contrastò George Bush nell’Alleanza Bolivariana per i Popoli delle Americhe, trascinando migliaia di persone nello stadio di Mar Del Plata per affossare dal basso il trattato di libero scambio, egemonia economica e commerciale degli Usa. “Non vogliamo violenza o altro, stiamo andando a riprenderci la dignità”, disse Maradona alla guida di un treno colorato e con premio Nobel, cantanti e mamme coraggio di Plaza De Mayo. “Bush criminale di guerra, gli argentini devono rifiutarsi che venga nel nostro paese. Ci disprezza, ci vuole ai suoi piedi. Noi argentini abbiamo tanti difetti, ma la dignità la manteniamo sempre”.
Nacque povero, un anno fa morì come se lo fosse. Anche se Diego è finito al centro del mondo, scontato il prezzo dell’indignazione non omologata.