La serie di femminicidi avvenuta la scorsa settimana, quasi tutti in Emilia Romagna, rende amara la giornata del 25 novembre che stiamo per celebrare con iniziative, manifestazioni, confronti pubblici e analisi dei numeri della violenza. Questo appuntamento annuale è l’occasione per ragionare sulle criticità e i punti di forza del sistema di protezione delle donne che sono vittime di violenza. Eppure qualcosa non va, se i femminicidi restano stabili e siamo qui, ancora, a domandarci perché donne che avevano denunciato e chiesto aiuto allo Stato sono entrate nelle cronache delle morti annunciate.

La scorsa settimana, a partire da martedì 16 novembre, sono state uccise: Milena Calanchi, 71 anni, dal figlio Carlo Evangelisti; Elisa Mulas, 43 anni, uccisa dall’ex Nabil Dhahri insieme alla madre Simonetta Fontana dalla quale si era rifugiata forse per sentirsi più protetta. Ma quel rifugio ha avuto un valore più affettivo che di protezione, perché non ha impedito a Nabil Dhahru di compiere una strage ed eliminare anche due bambini di 2 e 5 anni. Poi è stata assassinata dal marito anche Anna Bernardi, 67 anni. L’uomo era ammalato da tempo di Alzheimer e in questo caso è improprio parlare di un femminicidio. Non è il primo caso. Ci sono donne anziane che continuano a prendersi cura di mariti e figli con problemi psichiatrici correndo rischi, compreso quello di un atto di violenza estremo. Anche queste situazioni sono legate al ruolo delle donne alle quali si chiede di essere il welfare di uno Stato che delega e lascia spesso sulle loro spalle tutto il peso (e i rischi) della cura.

Poi c’è stato il femminicidio di Juana Cecilia Hazana Loayza. L’ex Mirko Genco l’ha attesa e accoltellata in un parco. Era stato denunciato due volte, messo agli arresti domiciliari e ha violato due divieti di avvicinamento. Dopo aver reiterato aggressioni verso la ex, Mirko Genco ha patteggiato una pena a due anni, ha ottenuto la condizionale e promesso strumentalmente di fare un percorso presso un Cam, poi ha ucciso. Era figlio di una donna assassinata nel 2015, a dimostrazione che la trasmissione intergenerazionale della violenza investe bambini e bambine o adolescenti che sono cresciuti assistendo a maltrattamenti e abusi sulla madre o su altri familiari. Mirko Genco aveva 19 anni quando la madre venne uccisa dal partner e uccidendo Juana Cecilia è come se avesse ucciso la propria madre per la seconda volta.

La giudice Cristina Betti, presidente del tribunale di Reggio Emilia, dopo l’uccisione di Juana Loayza ha dichiarato che “un giudice non ha poteri di chiaroveggenza, non può sapere ciò che accadrà dopo, stante la imprevedibilità delle reazioni umane”; poi ha aggiunto che sono state applicate le leggi nel rispetto dei principi costituzionali. Eppure la sospensione condizionale della pena può anche non essere concessa dal giudice se vi è una elevata pericolosità dell’imputato.

Il femminicidio non è qualcosa di imprevedibile, perché il fenomeno per le sue caratteristiche è prevedibile a meno che non lo si consideri come un raptus o una improvvisa perdita di controllo di impulsi irrefrenabili e non meditati. Ci sono evidenti indicatori di rischio che si possono cogliere con una adeguata valutazione. La stessa Corte di Strasburgo, non a caso, nel 2017 condannò l’Italia sul ricorso di Elisaveta Talpis. Le motivazioni della condanna sono chiare: lo Stato italiano non impiegò la giusta diligenza nel valutare l’imminente rischio che la donna correva, che era prevedibile data l’escalation delle azioni violente e delle minacce che portarono al suo grave ferimento e alla morte del figlio, che tentò di difenderla.

La Commissione sul femminicidio ha recentemente pubblicato un rapporto col quale ha analizzato indagini e sentenze riferiti agli anni 2017-2018. E’ emerso che il 15% delle vittime (29 su 196) aveva sporto denuncia per precedenti violenze o altri reati compiuti ai propri danni; il 58,6% delle donne aveva sporto più di una denuncia e il 34,5% tre o più; il 76% delle donne che avevano denunciato aveva dichiarato di temere per sé e i figli. Richieste di aiuto che sono state vane, perché i violenti non sono stati fermati nonostante le leggi in materia di violenza contro le donne. Pertanto iniziative come quella delle ministre Gelmini, Bonetti, Lamorgese, Cartabia e Carfagna, che sono al lavoro per chiudere un pacchetto di leggi che comprendono norme per rendere più efficaci i provvedimenti di fermo e addirittura prevedono la scorta per le donne sotto minaccia, rischiano di non migliorare lo stato attuale delle cose, come tutte le leggi fino ad oggi varate dai Governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni. Se le leggi non vengono applicate, perché continuare a vararne di nuove?

La relazione della Commissione del Femminicidio presentata nel giugno del 2021 ha messo in evidenza la carenza di giudizi specializzati, con risultanze coerenti con quelle della ricerca del Gruppo avvocate DiRe. Nelle istituzioni (magistratura, forze dell’ordine, servizi sociali) è ancora carente una formazione adeguata per riconoscere la violenza, distinguerla dal conflitto, saper valutare il rischio imminente che è prevedibile. Non solo. Non è possibile pensare di esaurire la tutela delle vittime solo con le norme securitarie, la denuncia è solo il primo passo ma forze dell’ordine, servizi sociosanitari e centri antiviolenza devono lavorare in rete e in sinergia confrontandosi anche sui singoli casi. Ma i tanti protocolli sottoscritti continuano a non essere applicati o non c’è collaborazione e comunicazione tra i soggetti istituzionali e centri antiviolenza. Ognuno fa il proprio pezzo, spesso senza tenere conto del contesto che vive la vittima di violenza. Si resta invece su un piano di estemporaneità e fa la differenza la buona volontà di singoli, ma non si riesce a fare sistema.

Oggi è il 25 novembre, lo celebro con la speranza che il prossimo 25 novembre non sarò qui a ricordare, insieme alle avvocate, alle operatrici e alle attiviste dei Centri antiviolenza Dire quali sono i nodi da sciogliere: sempre gli stessi, sempre fittamente intrecciati a ignavia, incompetenza o, peggio, diffidenza verso le donne che svelano violenze in famiglia.

@nadiesdaa

La fondazione del Fatto Quotidiano, insieme alla onlus Trama di Terre, finanzia borse di autonomia per sostenere donne sopravvissute alla violenza. Visita il sito e scopri come aiutarci: clicca qui

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