Quanto vale un bene confiscato restituito alla collettività?
Parlamento e governo stanno confezionando la nuova legge di bilancio: un’occasione da non perdere per cambiare il finale di una tipica storia italiana che troppo spesso diventa storiaccia, quella dei beni immobili confiscati in via definitiva alla mafia che nessuno vuole perché metterli a posto costa troppo. Andiamo con ordine.
Lo Stato ha da tempo capito l’importanza di individuare e confiscare le ricchezze accumulate dai mafiosi, ricchezze che riciclate con modalità sempre più sofisticate avvelenano l’economia legale perché alimentano una concorrenza sleale, capace di espellere dal mercato gli operatori onesti e di cancellare migliaia di posti di lavoro. Alla modalità originaria di confisca, quella penale, si è affiancata la confisca patrimoniale intesa come misura di prevenzione: una vera rivoluzione dovuta in particolare all’impegno di Pio La Torre. La confisca di prevenzione, infatti, prescinde dalla condanna penale e matura attraverso una procedura fondata su indizi gravi di colpevolezza e sulla sproporzione documentata tra redditi dichiarati e ricchezze effettivamente godute.
Più recentemente, grazie a un’enorme mobilitazione civile della quale Libera fu anima ispiratrice, lo Stato ha deciso che i beni confiscati potessero essere affidati agli Enti locali, e da questi a soggetti del terzo settore in grado di trasformare il maltolto in opportunità di riscatto sociale: era il 1996 e da allora l’Italia è all’avanguardia nel mondo per il contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso, avendo realizzato una conversione completa sia concreta sia simbolica del maleficio.
Per dare la misura della portata di questa conversione, soltanto negli ultimi anni l’Unione Europea ha mosso passi impegnativi perché i beni confiscati alla criminalità possano essere utilizzati per finalità sociali e siamo ancora lontanissimi dall’ulteriore traguardo che coniughi riutilizzo sociale e beni confiscati attraverso la prevenzione patrimoniale.
E non finisce qui: dal 2011 l’Italia ha un’Agenzia nazionale che deve occuparsi della gestione del patrimonio sequestrato e non ancora confiscato in via definitiva e poi della destinazione del patrimonio definitivamente confiscato. L’intero sistema è stato potenziato a partire dalla riforma del Codice Antimafia votata a larghissima maggioranza dal Parlamento nel 2017, che ha previsto, tra l’altro, la possibilità dell’Agenzia di assegnare i beni direttamente al terzo settore, senza passare dagli Enti locali, e la possibilità per questi ultimi di privilegiare una gestione commerciale dei beni immobili, vincolando gli utili a finalità sociali.
Ci sono però ancora alcune smagliature preoccupanti che rischiano di contraddire nei fatti la bontà di questo impianto, figlio della migliore antimafia del nostro Paese. Tra queste smagliature la più insidiosa è la mancanza di fondi pubblici dedicati alla ristrutturazione degli immobili confiscati e questa mancanza, unita al fatto che spesso gli immobili giungono a confisca definitiva ammalorati o gravati da abusi, rende gli immobili medesimi per nulla desiderabili: nessuno li vuole, restano lì per anni, uno schiaffo inaccettabile.
Certo i soldi non mancano in assoluto: ci sono linee di finanziamento utili se i beni stanno nel Mezzogiorno d’Italia e, con qualche sforzo, anche gli Enti centro-settentrionali possono recuperarne, ma la situazione è frastagliata e spesso intermittente. Da un lato, chi assegna i beni immobili e poi ha il dovere di verificare che il riutilizzo sia andato a buon fine (l’Agenzia) non ha soldi da dedicare alla ristrutturazione, dall’altro, chi si vede assegnato il bene (Ente locale o di terzo settore) deve attivarsi autonomamente per ricercare fondi destinabili e questa ricerca non è semplice e non ha un esito positivo certo.
Di qui la proposta che avanzo: l’Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati dovrebbe essere dotata di un fondo col quale sostenere direttamente le spese di ristrutturazione degli Enti o dei soggetti di terzo settore che accettino di gestire i beni immobili confiscati, a fronte ovviamente di progetti di riutilizzo convincenti e verificati. Questo “fondo” potrebbe essere rifornito semplicemente dirottando parte dei soldi che stanno in altri capitoli di spesa e che già oggi servono, almeno potenzialmente, per intervenire sui beni confiscati: penso ai Pon, al Fondo Coesione presso la Presidenza del Consiglio e, più recentemente, alla quota stimata in 300 milioni di euro a valere sul Pnrr di cui abbiamo letto a più riprese.
Proprio in questi giorni sono diventati l’oggetto di un mega bando pubblicato dal Ministero per il Sud e la coesione: una notizia, quest’ultima, che evidenzia una grave stortura. Il bando si rivolge esclusivamente alle Regioni del Sud, come se le mafie al Nord non ci fossero, non facessero investimenti e come se al Nord non ci fossero di conseguenza beni immobili confiscati. Uno strabismo gravissimo che sconfessa il grande lavoro di magistratura e Forze dell’Ordine che a partire dal 2010 ha portato a celebrare grandi processi proprio contro gli insediamenti mafiosi nel Nord. Certo, il problema non sta nel Ministero per il Sud, che fa il suo lavoro: il problema ancora una volta sta a monte nelle scelte strategiche del Governo, anche per questo abbiamo più volte invocato una cabina di regia istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ad ogni modo: i soldi investiti per il recupero dei beni immobili confiscati sono soldi ben spesi e avrebbero un effetto moltiplicatore eccezionale, anche immateriale, andando a rafforzare quel patrimonio fondamentale per il Paese che è la fiducia nella legalità.