Cultura

Raffasofia, un libro per trovare la felicità a suon di Raffaella Carrà. Parola della filosofa Marina Visentin

Insomma, altro che i fagioli di Pronto Raffaella: in Raffasofia la Raffaella Maria Roberta Pelloni è in mezzo a Gandhi, Che Guevara e Platone

di F. Q.

Più che una filosofia un vero e proprio stile di vita. Raffasofia ovvero “la rivoluzione dolce e danzante” di Raffaella Carrà è un libro curioso, devoto, ballerino, osante, scritto da Marina Visentin (Libreria Pienogiorno), che crea un centro di gravità rivoluzionante attorno a quell’ombelico che la Raffa nazionale esibì a Canzonissima nel 1970, subito dopo il successo di un altro show del sabato sera Rai – Io, Agata e tu – e che poi scavò sotterraneamente, inconsciamente, nel pubblico nazionalpopolare italiano, soprattutto a livello femminile. “Un’idea di rivoluzione che parte da dentro, che cambia la testa”, spiega la Visentin. “Con Io, Agata e tu è uscita una specie di bomba di energia che avevo dentro di me. Il mio intento non era tanto quello di piacere come donna, quello non mi interessava più di tanto, ma volevo sapere se quello che io pensavo, danzando e cantando con i capelli per aria, libera da tutte le lacche che si usavano all’epoca, libera, libera, con la forza che avevo dentro, se sarebbe piaciuto al pubblico, e la risposta è stata sì”, spiegò la Carrà.

Scorrono veloci le immagini di Frank Sinatra che la corteggia con una collana di perle ad Hollywood, poi ecco l’ombelico scoperto durante la sigla Ballo ballo e ancora l’anno successivo il Tuca Tuca in diretta nazionale per il quale il Vaticano tuonò ma che poi divenne ulteriormente celebre una settimana dopo in un duetto Tuca Tuca Raffaella-Alberto Sordi che silenziò gli strali. “Un ballo ingenuamente rivoluzionario, gioiosamente provocatorio, va bene per tutti, tutti lo amano e vi si riconoscono, perché trasmette solo un grande senso di libertà, un naturale, istintivo e suadente rigetto di ogni catena, di ogni divieto”, affermò sempre la Raffa nazionale. Insomma se volete ripercorrere le tappe sceniche della rivoluzione Carrà ci sono tutte: il caschetto biondo creato da Cele Vergottini, il successivo dirompente Tanti Auguri nel 1978 (“Com’è bello far l’amore da Trieste in giù/Com’è bello far l’amore io son pronta e tu/Tanti auguri/A chi tanti amanti ha/Tanti auguri/In campagna ed in città”), il balletto vestita da monaca sexy che omaggia i Beatles – ancora “un inno sfrontato anche se mai sguaiato a una sensualità allegra, spensierata” -, fino all’incarnazione involontaria da icona gay giunto fino ai giorni nostri.

Ho cominciato a capire il mondo gay dalla prima Canzonissima, nel 1970, quando iniziai a ricevere lettere di ragazzi disperati per le incomprensioni con la famiglia, pronti a uccidersi. Ho iniziato a informarmi, anche perché molte persone dei cast dove ho lavorato, costumisti e truccatori soprattutto, erano gay. Mi sono sempre chiesta com’è possibile che esista questo gap tra genitori, figli, amici e società di fronte a delle creature? Sono diventata icona gay mio “malgrado”, non ho fatto nulla, mi sono limitata a essere come sono, come mi viene naturale”. Insomma, altro che i fagioli di Pronto Raffaella: in Raffasofia la Raffaella Maria Roberta Pelloni è in mezzo a Gandhi, Che Guevara e Platone.

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