Nel post di martedì scorso ho continuato a ragionare sul tema controverso delle emissioni inutili di gas serra. Una voce del tutto trascurata dagli accordi internazionali passati e presenti e, probabilmente, futuri. La patente di inutilità nasce senza dubbio da un giudizio personale. A mio parere, l’enorme quantità di energia che l’umanità dedica alla creazione di criptovalute è uno spreco. Non si tratta di una opinione condivisa.
La maggior parte dei (numerosi) commenti ha sottolineato impietosamente la mia ignoranza in materia di criptovalute, esaltandone validità economica e sociale, merito culturale e teologico, sublime essenza. Verissimo: non capisco nulla di valute. E tanto meno della loro declinazione criptica. Sulla mitigazione del cambiamento climatico, dove un taglio di 200 terawattora all’anno potrebbe aiutare non poco, questi commenti hanno però glissato.
I commenti al post, normalmente pacati e costruttivi, hanno sfiorato accenti da dibattito tra virologi, veterinari e NoVax con qualche velatura da scia chimica. Meglio un Bitcoin oggi di una gallina tra vent’anni. Domani è un altro giorno e si vedrà, soprattutto se il controvalore della criptovaluta crescerà esponenzialmente come accaduto finora. Nel caso, l’adoratore di criptovalute potrà permettersi un super condizionatore, se farà davvero un po’ più caldo. E, se andrà peggio, potrà felicemente emigrare in un’isola caraibica, sempre che non sia stata sommersa. È una lezione chiara: la mitigazione è doverosa se non incrina la propria visione della vita. Meglio se la fanno gli “altri”.
Cop26 di Glasgow dà per scontata la crescita della domanda di energia, senza chiedersi a che cosa serva tutta questa energia. Eppure di sprechi e usi discutibili ce ne sono molti. Le criptovalute sono solo un prototipo. Per esempio: quanto conta l’attività militare che accomuna grandi e piccole nazioni nello sforzo continuo per migliorare la propria capacità di fuoco?
Su questo tema, un articolo pubblicato in questi giorni su The Conversation (How the world’s militaries hide their huge carbon emissions, 9 novembre 2021) emette un giudizio severo: “La leadership nella lotta al cambiamento climatico reclama cose più serie dei discorsi accorati. Significa affrontare dure verità. Una verità con cui i governi di tutto il mondo stanno lottando è l’immenso contributo dei loro militari alla crisi climatica”. Alcuni studiosi stimano che le forze armate, assieme alle industrie che alimentano la filiera, producano fino al cinque percento delle emissioni globali di gas serra: più della navigazione commerciale e dell’aviazione civile che, messe insieme, valgono circa il tre e mezzo per cento.
Un articolo scientifico pubblicato un anno fa su Tigb – ad accesso gratuito – analizza l’ecologia geopolitica della catena di approvvigionamento logistico globale delle forze armate statunitensi (Belcher et al., Hidden carbon costs of the “everywhere war”: Logistics, geopolitical ecology, and the carbon boot-print of the US military, Trans Inst Br Geogr, 45,1, 2020). Nel 2017, le loro emissioni di gas serra avevano raggiunto 23 mila kilotonnellate di CO2 equivalente (vedi Figura) dove l’aviazione faceva la parte del leone: una sola missione dell’aereo da combattimento F-35 emette quasi 30 tonnellate di CO2e. E se si alza un bombardiere nucleare B-2, le emissioni sono nove volte più elevate.
Nonostante sia in vigore dal 2015 l’accordo parigino che impegna 46 nazioni a comunicare le emissioni da parte della propria filiera militare, questi dati sono ancora opachi. Le analisi riportate da www.militaryemissionsgap.org indicano una generale tendenza all’understatement: i governi tendono a sotto-segnalare le emissioni effettive, anche per la complessità di una filiera assai ramificata. Senza contare che alcune importanti nazioni – per esempio: Cina, Israele, India, Arabia Saudita – ignorano del tutto la questione, non avendo sottoscritto quell’accordo.
“L’unico modo per raffreddare la fornace è spegnere almeno qualche forno”, concludevano gli autori dello studio sulle forze armate Usa. Tutto ciò avrebbe un effetto immediato nel ridurre le emissioni, oggi e da domani in poi. Non solo, una inversione di rotta disincentiverebbe gli investimenti industriali fatti nella presunzione che le forze armate siano sempre e ancora disponibili a comprare e consumare senza remore.
È una opzione verosimile?
Sia i governi occidentali, sia le potenze orientali temono le implicazioni della crisi climatica in tema di sicurezza. E il rafforzamento delle forze armate viene anche considerato un baluardo indispensabile per affrontare la sfida climatica. Ci si può aspettare un qualche weapons-grade greenwash, operazioni di facciata che addolciscano la pillola. Ma difficilmente i governi metteranno dei fiori nei loro cannoni, come invocava lo slogan pacifista più inutilmente scandito e cantato dai ragazzi di cinquant’anni fa.
In passato, conoscevamo le conseguenze meteorologiche della guerra: dopo la battaglia piove sempre e copiosamente, come testimoniavano i reduci della Guerra dei Sette Anni. Sono fenomeni a breve termine, dell’ordine di un giorno o poco più, associati all’inseminazione dell’aria dovuta al pulviscolo generato dalle esplosioni. Ora sappiamo che il comparto delle forze armate è un importante attore del rapido incremento dell’effetto serra sulla Terra. E quando le forze armate entrano in azione, la guerra ha effetti climatici dirompenti. Essa non solo produce un picco nell’estrazione e nel consumo di quanto conta l’attività militare, ma anche vaste deforestazioni, distruzione di ecosistemi, aumento delle torce di impianti chimici e petroliferi, boom della produzione di cemento per la ricostruzione. Tutti forni accesi che aumentano il riscaldamento globale.