Sull'urgenza di genotipizzare il virus, almeno a parole, sono d'accordo tutti: ma i numeri sono lontanissimi dagli standard europei e internazionali, nonché dagli annunci del ministro Speranza e del sottosegretario Costa. Lettera morta anche l'impegno di Draghi ad "aumentare il sequenziamento" per "individuare con prontezza lo sviluppo di nuove varianti". E la rete di laboratori è partita con quattro mesi di ritardo
Il tema torna di moda a intervalli regolari, di solito in concomitanza con la minaccia di una nuova variante. Sull’urgenza di sequenziare il Sars-CoV-2, almeno a parole, sono d’accordo tutti: politici, ministri, scienziati, autorità sanitarie. I numeri, però, raccontano un’Italia lontanissima dal target minimo fissato dall’Ecdc (il centro europeo di controllo delle malattie infettive) e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che chiedono di analizzare il genoma di almeno il 5% dei tamponi positivi, per tenere sotto controllo il proliferare di mutazioni. I dati disponibili sulla piattaforma internazionale Gisaid dicono che dal 10 gennaio 2020 l’Italia ha depositato appena 76.863 sequenze, cioè l’1,44% dei totale dei test positivi. Un lieve aumento si è visto solo quest’estate, con l’istituzione di una rete di laboratori regionali per la sorveglianza epidemiologica: considerando la finestra degli ultimi novanta giorni la percentuale cresce al 2,91%. Ma già nell’ultimo mese – complice la risalita dei contagi che impegna le strutture – il dato è crollato di nuovo all’1,33%. Trasformando in lettera morta l’annuncio del premier Mario Draghi, che ancora a giugno batteva sull’esigenza di “aumentare il sequenziamento” per “individuare con prontezza lo sviluppo di nuove varianti”, come la Delta (ex indiana) che in quel momento preoccupava più di tutte le altre. Nonché la promessa (datata 30 aprile) del sottosegretario alla Salute Andrea Costa di isolare tre-quattromila genomi alla settimana, una soglia che sette mesi dopo appare ancora lontanissima.
Di sequenziamento si inizia a parlare a fine 2020, quando si scopre il primo tra i ceppi sensibilmente più contagiosi rispetto a quello di Wuhan: la variante inglese, poi rinominata Alfa. L’Ecdc invita i Paesi ad “analizzare i i virus isolati in modo tempestivo” e “sviluppare dei meccanismi standardizzati per studiare e valutare le nuove varianti”. In quel momento l’Italia aveva depositato su Gisaid appena 920 sequenze in un anno, contro le 140mila del Regno Unito: il 27 gennaio 2021 a lanciare l’allarme è Gianni Rezza, direttore della prevenzione del ministero della Salute, che invoca “una capacità di fuoco maggiore per sequenziare il virus” e “avere un sistema di sorveglianza e allerta sulla circolazione delle varianti”. Lo stesso giorno, il presidente dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) Giorgio Palù e il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri annunciano la nascita di un “Consorzio italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di Sars-CoV-2”, un progetto che però resta bloccato nel pantano della crisi di governo e verrà rilanciato – sotto forma della rete di laboratori – soltanto alle porte dell’estate, con gli scarsi risultati sotto gli occhi di tutti.
Il 1° febbraio una circolare firmata da Rezza esorta tutti i laboratori del Paese a “garantire la disponibilità di risorse umane e materiali per gestire il numero crescente di richieste di rilevamento e caratterizzazione di campioni SARS-CoV-2 e sfruttare tutta la capacità possibile da laboratori clinici, diagnostici, accademici e commerciali”. Poco dopo – il 7 febbraio – l’Ecdc raccomanda di sequenziare “almeno cinquecento campioni selezionati casualmente ogni settimana a livello nazionale”, indicando una serie di priorità, tra cui i vaccinati che si reinfettano, i positivi di lungo periodo e chi arriva da Paesi ad alta incidenza di varianti. Ma da quello standard l’Italia resterà lontana ancora a lungo. E infatti pochi giorni dopo il centro europeo lancia l’allarme: la nostra capacità (ma anche quella degli altri Stati membri) è molto al di sotto della soglia del 5%. Il 17 febbraio la Commissione lancia una “strategia anti-varianti” stanziando 75 milioni di euro e il 9 marzo arriva anche l’appello degli esperti del Comitato tecnico-scientifico. Ma la svolta continua a non vedersi: “L’Italia sequenzia attualmente 1,3 campioni di virus ogni mille e impiega un tempo medio di circa due mesi per caricarli in Gisaid”, denuncia il 22 febbraio il virologo del San Raffaele Roberto Burioni, che parla di “una delle prestazioni peggiori al mondo”. Due mesi dopo, il 26 aprile, il nostro score è ancora fermo a 20.696 sequenze, lo 0,52% del totale dei tamponi positivi, contro le 379.080 del Regno Unito primo in classifica.
Negli stessi giorni il governo, sotto pressione, fissa target ambiziosi. “Si rende necessario rafforzare l’attività di sequenziamento, al fine di individuare precocemente la comparsa di nuove varianti virali prima di un loro rapido diffondersi”, dice il 30 aprile alla Camera il sottosegretario alla Salute Costa. E promette una struttura con una capacità di analisi “pari a tremila-quattromila genomi a settimana, per la ricerca e lo studio di varianti già note, ma, soprattutto, di varianti “nuove” di interesse per la sanità pubblica”. Un obiettivo che con le lenti di oggi appare velleitario, se si pensa che negli ultimi 90 giorni le sequenze analizzate sono state 13.104 (una media di poco più di mille a settimana) e nell’ultimo mese appena 2.936 (circa settecento a settimana). Nei mesi successivi arriva a imperversare la variante Delta, e col senno di poi tornano quotidiani gli appelli al sequenziamento. “Da gennaio abbiamo fatto passi da gigante”, rassicura Sileri. E il 14 luglio – rispondendo a un question time a Montecitorio – il ministro Speranza vanta un successo che col senno di poi risulterà effimero: “Il dato definitivo per il mese di giugno è del 6% dei casi che vengono sequenziati”. “Lavoriamo perché la rete di laboratori abbia capacità di tenuta anche al di là del Covid”, diceva. Ma finora sembra poco attrezzata anche per la quarta ondata.