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Positivə – 40 anni di HIV in Italia, un documentario (imperdibile) che nasce per “dare visibilità, spezzare le catene dello stigma sociale”

di Francesco Canino

Un viaggio in macchina verso il mare con quattro sconosciuti, tutti under 40 e tutti HIV+, che raccontano loro vite a cuore aperto e che cosa significhi avere l’HIV oggi. Italia 2022. Stigma sociale, paure, ignoranza e ipocrisia. S’intitola Positivə – 40 anni di HIV in Italia il documentario indipendente realizzato dalle case di produzione Peekaboo e UAU e scritto da Elena Comoglio, Francesco Maddaloni e Ruggero Melis, presentato in anteprima a Milano mercoledì 24 novembre, al Cinema Anteo, in collaborazione con il Mix Festival.

Il 1° dicembre 2021, Giornata Mondiale contro l’AIDS, è una data cruciale: saranno i quarant’anni dall’individuazione del virus. Quarant’anni di stigma, lotte, cliché e silenzi, troppi, che hanno innescato un gap comunicativo che ha portato un’intera generazione di giovani a conoscere poco o nulla di un virus – e delle terapie in grado di azzerarne gli effetti e impedirne il contagio – che oggi colpisce oltre 130 mila italiani. “Ho un nipote giovane e istruito e parlando con lui mi sono reso con che ignorava completamente ciò che avvenne negli anni ’80 e primi anni ‘90 e il contributo fondamentale che la comunità LGBTQI+ ha dato nella lotta contro l’Hiv. Il documentario nasce anche per questo: raccontare, dare visibilità, spezzare le catene dello stigma sociale che ancora oggi resistono in maniera drammatica”, racconta a FQ Magazine Salvatore De Martino, il co-produttore di Positivə, diretto dal giovane regista Alessandro Redaelli (sarà disponibile in esclusiva sulla piattaforma in streaming Nexo+ per cinque giorni a partire dal 1° dicembre). Per farlo, gli autori hanno intrecciato due livelli narrativi. Il primo riguarda i quattro protagonisti, con le loro storie che scardinano luoghi comuni e raccontano da una prospettiva inedita le vite delle persone HIV positive. A raccontarsi sono Daria (mamma di una bambina di un anno), la transgender Daphne Bohémien, Gabriele (assicuratore e padre di due bambini) e Simone, protagonista di un celebre coming out con il quale, attraverso i social, rivelò il suo stato sierologico. “Positivə è soprattutto un documentario che parla di tutte quelle persone che hanno deciso di uscire allo scoperto: raccontiamo la quotidianità di chi ha voluto metterci la faccia, non nascondendosi più, non lasciando che lo stigma sociale non fagocitasse la loro vita. Per molti anni è stato così: non solo non è stato fatto nulla a livello terapeutico e di prevenzione sociale, ma nemmeno per ciò che riguardava le campagne di comunicazione. La malattia fu completamente ignorata, facendo galoppare i contagi e creando ancora più problemi ai malati, che furono abbandonati a loro stessi e ghettizzati. Preparando il documentario, molti volontari delle associazioni storiche come ANLAIDS e ASA, ci hanno ricordato alcune delle cose più atroci che accadevano in quegli anni. Come quegli omosessuali licenziati dai posti di lavoro solo perché i colleghi si rifiutavano di andare a lavorare: all’epoca, e purtroppo in tanti ancora pensano che sia così, i gay erano considerati gli untori. Oppure di come molte pompe funebri negli anni ’80 si rifiutavano di ritirare le salme quando scoprivano che si trattava di malati di Aids. Era un problema vivere ma anche morire”, osserva Salvatore De Martino.

L’altro piano narrativo del documentario coinvolge poi dei “talking heads”, una sorta di “memoria storica dell’Hiv”, che forniscono il proprio punto di vista sulla malattia e su com’è stata affrontata in questi quarant’anni. Il fotografo Oliviero Toscani ricorda ad esempio le campagne di comunicazione realizzate con Benetton, in cui provocatoriamente fece tatuare i sieropositivi con la scritta “hiv positive”, ricordando il tatuaggio degli ebrei nei campi di concentramento, («visto che i malati erano stigmatizzati allo stesso modo»). Tra i documenti dell’epoca non ci sarà invece la celebre campagna che mostrava i malati circondati da un alone viola. “Quella fu la prima volta che l’allora Ministero della Salute faceva una pubblicità per comunicare con i cittadini italiani. Purtroppo l’agenzia creativa non ci ha dato autorizzazione ad utilizzarla”, rivela il produttore. Tra i volti del documentario, spicca Loredana Bertè con una testimonianza di grande impatto, in cui racconta la perdita del suo migliore amico, Leonardo, che all’epoca viveva a casa con lei, e ripercorre la storia di questo ragazzo, dai primi sintomi alla diagnosi definitiva che travolse le loro vite. “Loredana era all’apice della carriera e fece di tutto per salvarlo. Tentò in ogni modo di portarlo da Luc Montagnier, in Francia, ma nessuna compagnia aerea gli permise di salire a bordo e quando ne trovarono una, lessero la cartella clinica e gli lo impedirono». Poi c’è Jo Squillo, con un testimonianza molto forte dei concerti gratuiti che faceva nell’hospice fondato agli inizi degli anni ’90 dallo stilista Franco Moschino – che morì poco dopo -, l’unico in Italia ad ospitare i malati terminali di Aids. Poi c’è lo scrittore Jonathan Bazzi – uno dei pochi che in Italia ha fatto coming out rispetto alla sua sieropositività –, che riflette invece sullo scarsissimo livello di informazione che si fa oggi circa le malattie sessualmente trasmissibili e su come la discussione sul tema si sia arrestata, facendo restare completamente invariato il problema dello stigma sociale. “E purtroppo l’ignoranza genera contagi. Una volta l’Aids era la malattia dei gay, dei tossici e delle prostitute, oggi invece riguarda principalmente gli etero e i giovani: non sanno difendersi, non si proteggono, non conoscono minimamente la Prep (un protocollo medico per prevenire l’HIV, ndr) e le terapie che quasi annullano la carica virale e consentono ad esempio di procreare dei bambini sani. E guardi che l’ignoranza è più diffusa di quanto pensiamo e noi l’abbiamo toccata con mano: dovevamo girare alcune scene in una piscina, che prima ci ha dato l’autorizzazione poi ce l’ha revocata quando ha saputo che il protagonista era una persona sieropositiva. “Non vogliamo che la gente pensi che frequenta la nostra piscina”, ci hanno risposto. C’è un gap di comunicazione spaventoso e questo continua a provocare danni: è vero, grazie alla Prep e alle terapie i contagi calano ma questo non significa che il virus non esista più. Noi con questo documentario vogliamo dare voce ai malati, spezzare le catene dello stigma sociale perché è giusto che vivano la loro vita senza pregiudizi o nell’invisibilità”.

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