Rudy Guede è stato scarcerato. Ha finito di scontare la pena e, a seguito dei “giorni premio” per la buona condotta, ha potuto scontare una buona fetta di condanna. I media hanno dato un discreto rilievo alla notizia anche se c’è poco interesse dietro al suo nome, mentre ve ne è sempre stato molto intorno a quello degli altri due indagati, la bella Amanda Knox (che ha saputo crearsi una nuova vita dalla tragedia) e il suo timido fidanzato, Raffaele Sollecito.

Tutto sommato la notizia del “fine pena” per l’ivoriano è di pochissima importanza. La giustizia ha fatto il suo corso, la pena è stata scontata e i parenti stessi della povera vittima (Meredith Kercher) con compostezza inglese non hanno, neppure questa volta, sollevato polemiche nei confronti del periglioso iter giudiziario italiano (basti ricordare il susseguirsi di condanne e poi di assoluzioni, con il risultato di vedere condannato solamente il ragazzo ivoriano). Peraltro, di quella vicenda giudiziaria, deve essere ricordata la sentenza di Cassazione, un monumento di logica giuridica, restato, purtroppo, troppo isolato nello sterminato e quotidiano villaggio delle valutazioni giudiziarie sulla prova indiziaria. È stata la nostra “sentenza Simpson”, un vero fiore nel deserto della quotidianità.

Per queste ragioni possono essere svolti pochi commenti; a distanza di tanti anni è possibile affermare che, sotto ogni punto di vista, “giustizia è fatta” (anche laddove la giustizia stessa non è riuscita ad arrivare ad eventuali complici del ragazzo condannato. Ma, proprio per questo, la giustizia che sa fare un passo indietro deve far dire “giustizia è fatta”). Pensando ad altre brutte storie giudiziarie (su tutte le sentenze contro Massimo Bossetti o Rosa Bazzi ed Olindo Romano) è già tantissimo.

Diverso è voler esprimere qualche considerazione di sociologia e specialmente di sociologia giudiziaria. In quest’ottica è possibile formulare alcune considerazioni. Una su tutte: l’interesse per i casi giudiziari è quasi totalmente scemato. Quel gusto giornalistico-letterario (e talvolta dai toni da avanspettacolo) ha accompagnato la storia italiana per quasi quarant’anni, prima con le vicende della politica e poi con i casi di omicidio, specialmente quelli tra le mura domestiche e tra amici e fidanzati di giovane età (come è stata anche la vicenda che ha coinvolto Rudy Guede).

Intorno a questo mondo di storie criminali si erano decuplicate le iscrizioni alla facoltà di giurisprudenza; i ragazzi si dividevano tra coloro che volevano fare i magistrati per difendere la legalità e coloro che sognavano un futuro in toga come difensori alla Perry Mason. Tutti volevano occuparsi di delitti, di macchie di sangue, di prova genetica o di altre diavolerie al servizio della giustizia. Quel mondo è finito. Oggi il diritto penale appare come un ferrovecchio, arrugginito e lasciato in un angolo di qualche soffitta polverosa. I temi sono altri: la pandemia, la tutela di ogni forma di minoranza, le nuove prospettive della politica in un mondo che archivia come giurassiche le realtà di soli cinque o sei anni fa. È degli scorsi giorni una raccomandazione comunitaria sul linguaggio, poi ritirata: non è corretto parlare di “vacanze di Natale” oppure usare il nome “Maria”. Si tratterebbe di definizioni troppo identitarie, capaci di offendere la sensibilità di chi non è di fede cattolica. Tutto questo dopo altre iniziative volte a cancellare ogni forma di “identità scortese”.

Ancora una volta la giustizia appare lontana anni luce dalla contemporaneità: i suoi stigmi (pregiudicato, incarcerato, eccetera) sono sberle in faccia a chi viene colpito da un procedimento giudiziario. Secondo il “bon ton” europeo neppure il termine di “cittadino” dovrebbe essere utilizzato perché potrebbe offendere colui che cittadino non è, ma si trova sul territorio dello Stato. Chissà se un giorno anche la giustizia o la sua pubblica rappresentazione saranno riformate dal “politicamente corretto” e non si potrà più parlare di imputato, pregiudicato, condannato, corrotto o corruttore, omicida o assassino.

La giustizia pop, quella che si alimenta di vicende reali per trasformarle in fumetti mediatici, in cui il voyeurismo criminalistico viene venduto come sete di giustizia, segna il passo (e con esso il suo sadismo linguistico): è evidente che la festa orgiastico-mediatica inaugurata dalla pandemia è inarrivabile. I baccanali dei virologi e specialmente degli apprendisti stregoni del “vairus” sono ben più coinvolgenti, universali e vertiginosi di quelli dell’indizio, della prova genetica e delle dirette dalla “crime scene”.

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