È un sabato pomeriggio di novembre e sembra esattamente un sabato pomeriggio di novembre. Le cose non sono come te le aspetti, il più delle volte. Novembre invece sì, lui si presenta sempre uguale, anno dopo anno: alcuni giorni di quella tetra ‘umidità che fa i capelli brutti’ alternati a improvvisi cieli azzurri. Pioviggina, Milano è ben vestita di grigio, il divano sembra l’unica via. Anzi lo è. Si parla del tempo quando si vuol tergiversare e qui forse c’è troppa emotività per un articolo sul giornale.
Qualcuno ha scritto sui social che su Disney + è uscito The Beatles: Get Back. Ora tu lo sai, lo sai che le cose non sono quasi mai come te le aspetti. E se dormi con “Il libro bianco dei Beatles” (di Franco Zanetti) sul comodino, hai una paura fottuta che questo documentario in tre parti diretto dal Peter Jackson possa essere ‘meno‘. Le premesse sono ottime: lui, Jackson, ha familiarità con l’Oscar. Si tratta di 60 ore di riprese inedite girate nel gennaio del 1969 da Michael Lindsay-Hogg e di 150 ore di audio. I Beatles devono registrare nuove canzoni, fare uno show per la tv e decidere se (e dove) esibirsi dal vivo. Avete mai messo piede in una sala prove? Se sì, saprete come vanno le cose in quel limbo sospeso di creatività, frustrazione, fumo di sigaretta, freddo (nelle sale prove c’è quasi sempre freddo, no matter what). Qualsiasi sala prove abbiate frequentato, la proporzione con quello che vedrete nel documentario di Disney + è un po’ come “santino” vs “apparizione di Gesù”. Via, iniziamo. Siamo in un gigante spazio vuoto insieme a John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, Ringo Starr. La qualità delle immagini è tale che viene da cacciare un urletto. Uno di quei gemiti strozzati, da fan, le guance rosse, la tazza di tè messa in un angolo. I quattro provano. Anzi, creano. È la meraviglia della creazione. Se questa è arte al massimo stadio, e lo è eccome, dopo pochi minuti si è immersi fino al collo nella meraviglia della creazione. Mica per spoilerare, ci mancherebbe altro (già l’uso di questa parola mentre si scrive di una tale magia, “spoilerare”, appare osceno). La band vive momenti di tensione (informarsi altrove per ‘le basi‘) e la presenza di telecamere non aiuta a sfogarsi né a rilassarsi. In certi momenti la naturalezza vince. McCartney guida, Lennon ritarda (poi però sfodera il genio per farsi perdonare), Starr è “il re delle emozioni”, Harrison è timido, o forse non troppo. Una mattina, Harrison entra in sala e dice “questa mi è venuta stanotte“. Chiede se gli altri la vogliono sentire. È “I, me, mine”. Pensate a quante volte nella vita capita di vedere una meraviglia nel momento stesso in cui nasce dalla testa, dal cuore, dalle mani del suo autore. Mai, eh? Qui sì. C’è pure McCartney che a un certo punto butta giù Let it Be nel disinteresse generale. C’è Get Back che nasce. Sono quattro geni. È un insieme irripetibile. Mentre uno scrive un pezzo sul monumentale The Beatles: Get Back vorrebbe che lo proiettassero sui muri, che lo facessero vedere nelle scuole, che lo spedissero su Marte insieme a Elon Musk. John e Paul si guardano, spesso, con centomila sentimenti tra iride e pupilla. “Avanti ragazzi c’è da decidere dove suonare live!“. Chi guarda lo sa, che dopo non accadrà più. Ma chi guarda non sa che sta per essere travolto da un’emozione al galoppo. Non appena i quattro salgono sul tetto a Savile Road e iniziano a suonare, se uno ha un briciolo di amore per la musica, piange. O ci va vicino. Quante frasi fatte, quanti luoghi comuni. Troppo, no? Bastava dire “la meraviglia della creazione”. Bastava dire, guardatelo. Bastava dire che un sabato di novembre è diventato all’improvviso un sabato di novembre indimenticabile.
All I can hear,
I, me, mine
I, me, mine,
Even those tears,
I, me, mine
I, me, mine
I, me, mine